Regia di Pedro Almodóvar vedi scheda film
Il miglior film di Almodóvar dai tempi di Volver e, a tutti gli effetti, il suo secondo, vero, capolavoro dopo il suddetto. Sorta di opera-testamento, per quanto tale espressione possa apparire abusata, Dolor y gloria è il ritorno in pompa magna di una regista che, nel bene e nel male, ha segnato gli ultimi trent’anni della cinematografia iberica.
Un capolavoro della piena maturità, capace di evocare le più disparate emozioni e di suscitare le più diverse riflessioni, come solo i grandi film (o, meglio, le grandi opere tout court) sanno fare.
Un grande e potente affresco che non si esaurisce affatto, come magari si potrebbe essere portati a pensare, nella mera auto-referenzialità, nell’asfittica, egocentrica, narcisistica (o, peggio ancora, dato il tenore di vita del protagonista, elitistica ed esclusiva) ossessione autobiografica, ma che anzi si dimostra in grado di raggiungere un’universalità forse inattesa, di tratteggiare, in sostanza, un quadro particolare, particolaristico, innegabilmente soggettivo, eppure in non indifferente misura capace di toccare corde emotive e soprattutto intellettuali profonde e che ci accomunano tutti, o perlomeno risuonano in tanti.
E’ difficile scriverne, di questo nuovo film di almodóvariana concezione, per il semplice fatto che, come accennato, “troppe” sono le suggestioni, “troppe” le sensazioni, ma soprattutto “troppo”, incredibilmente toccante è il risultato finale, tanto che si può dire non abbisogni quasi di alcun commento.
In ogni caso, di sicuro coloro i quali hanno lamentato una certa frammentarietà narrativa, ovvero il procedere della narrazione per mezzo di una serie di episodi apparentemente sconnessi, e che hanno rimproverato al film, per diretta conseguenza, una supposta vacuità hanno anche volutamente ignorato il quadro più ampio.
Perché sì, è innegabile che il film proceda per episodi, più o meno brevi spezzoni, ma questo non configura affatto un’assenza di una trama, o di un senso, che sono dati per l’appunto dal quadro complessivo e dal discorso che si intende costruire.
Dolor y gloria è la storia di un uomo che finalmente, forse per la prima volta, si decide a fare i conti con il proprio passato; è una storia a tratti commovente a tratti perfino esilarante che parla di accettazione, della necessità di venire a patti con quanto è avvenuto, di non farsi abbattere tanto dal passato quanto dal presente e dal futuro, di accettare le alterne fortune e di cercare di non farsi scoraggiare, ridurre ai minimi termini, sconfiggere; in ultima analisi anche una storia che ci dice della necessità di perseguire i propri sogni e della capacità dell’arte di esorcizzare le nostre paure, di incanalare le nostre emozioni e dunque di farci superare i momenti più bui (o addirittura di salvarci la vita, come nel caso di Salvador).
Forse niente di nuovo, d’accordo, ma raccontato in maniera impeccabile, sincera, emozionante. Perché, difatti, la “primera” qualità di questo film risiede proprio nel suo essere estremamente coinvolgente, avvolgente, avvinghiante, per nulla noioso (nonostante la “frammentarietà”), anzi, come detto, molto, molto toccante (un episodio su tutti: quello del ritratto). Insomma, un film “tremendamente impattante” ad un livello anche solo puramente emotivo.
Ma, non bisogna farsi trarre in inganno, dato che se riesce ad esserlo è solo grazie ad un’assoluta capacità di introspezione psicologica che restituisce, ed eccoci ritornare al punto, un’universalità di sentimenti e idee inaspettata, quindi solo grazie alla sua consistenza pure concettuale, a livello di regia e sceneggiatura (altro momento topico: quello del monologo teatrale).
Resta un’ultima cosa da dire: Dolor y gloria si può dire sia anche un film sulla difficoltà della creazione artistica (evidentemente speculare alla sua capacità, quando efficace, di contenere in sé tutto quanto sopraddetto), arte che sa essere totalizzante nonché fonte tanto di gioie quanto di “nevrosi”; un film sulla paura di perdere la propria arte, di trovarsi nell’impossibilità esercitarla (il blocco fisico che simboleggia la paralisi del blocco creativo), e dunque di perdere la propria unica ancora di salvezza; un film sul terrore del vuoto, del non aver più nulla da dire e del fallimento, ma anche un film sul riuscire a trovare la felicità anche nella cornice di una vita esigente, frammentata e traumatica (ed è tutto questo che può portare ad avvicinare l’opera di Almodóvar, pur tra tutti i dovuti distinguo, all’8½ felliniano).
Per concludere, un grande film davvero, l’ultimo del regista, che si giova, tra le altre cose, anche dell’intensa e partecipe interpretazione di un “inedito” Banderas (enormemente migliorato come attore), meritevole di ogni encomio. Bravissimi anche gli altri e, come già detto, impeccabile la confezione: regia, sceneggiatura, fotografia, colonna sonora… tutto.
Acclamato a gran voce sin dalla presentazione al Festival di Cannes (dove ha finito per trionfare il parimenti grandioso [seppur probabilmente più "innovativo"] Parasite), Dolor y gloria è indubbiamente uno dei migliori film della stagione e, al contempo, del decennio.
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