Regia di Pedro Almodóvar vedi scheda film
Il fatto che un regista decida di girare un film per interrogare se stesso come persona e artista non è certo cosa nuova, basti pensare a Fellini, Allen, ma anche il caso Adrian, firmato da Celentano, Cerami e Baricco. Sono film, o libri nel caso di metascrittura, in cui è necessario un equilibrio tra sincera introspezione e spudorato egotismo, che non credo affatto sia una forma tossica di narrazione. Sicuramente, Pedro Almodóvar, per il regista a cui ci ha abituato essere, non poteva scivolare sull’esasperazione appunto egotista del racconto, dopo una fase, che parte almeno con Hable con ella (2002), dove il kitsch e il gioco pop della prima fase della sua carriera si fa meno esuberante, trasformando le sue pellicole in viaggi melodrammatici dalle tinte più spente, a tratti più oscure, come in La piel que habito (2011), per poi concedersi una rimpatriata goliardica con Los amantes pasajeros (2013), capolavoro incompreso dalla criticaccia parruccona e pedante. Pur restando, almeno per chi scrive, La mala educación (2004) il grande capolavoro del regista madrileño, Dolor y gloria gli contende il primato, anzi, lo raggiunge, e insieme formano un dittico in cui i ricordi e le rappresentazioni della vita del regista trovano un punto di contatto tra estrema finzione e calco autobiografico.
Come il protagonista interpretato da Antonio Banderas, ovvero il regista Salvador Mallo, attanagliato da problemi fisici, frustrazioni e insicurezze, trova la sua salvezza proprio nel coraggio di raccontarli in El primer deseo, il film che nasce in messa in abisso proprio alla fine di Dolor y Gloria, Almodóvar ci mostra il percorso che lo ha portato a dirigere appunto Dolor y gloria. Forse sarebbe stato più azzeccato, in termini metacinematrografici, intitolare il film proprio El primer deseo, per chiudere il cerchio, ma sarebbe stato fuorviante, perché si sarebbe riferito solo a uno dei tre blocchi narrativi che ci vengono raccontati a fasi alterne lungo l’arco dell’intero film.
Il primo blocco racconta del incontro, dopo trent’anni di incomprensioni e silenzi, tra il regista Mallo e l’attore Alberto Crespo, interpretato da Asier Etxeandia, protagonista del suo film più importante, tale Sabor – che adesso vorremmo davvero che Almodóvar lo girasse, anche se è un chiaro riferimenti a La ley del deseo (1987). In questo blocco non è difficile intravedere il tormentato rapporto che il vero Almodóvar ha avuto con alcuni dei suoi attori più celebri, come Eusebio Poncela – che avrei visto benissimo nel ruolo di Padre Manolo in La mala educación al posto di Daniel Giménez Cacho – o come la gigantesca Carmen Maura e, perché no?, come insinua qualche critico, lo stesso Antonio Banderas. Questo blocco, molto simpatico, che sa molto di buddy movie, e che come gli altri due blocchi ha un inizio, uno sviluppo e una conclusione, finisce proprio introducendo il secondo blocco narrativo, quello dell’incontro tra Salvador e il suo vecchio amore di gioventù interpretato da Leonardo Sbaraglia utilizzando come trait d’union il monologo di Asier Etxteandia che racconta il travagliato amore di Banderas con Sbaraglia e che è già un monologo classico del suo cinema.
In questo blocco, più corto e contenuto nel suo sviluppo, Almodóvar rinchiude molto della propria sensibilità. Forse proprio per questo non gli concede troppo spazio, perché sa che è il melodramma è molto più efficace se è tutto concentrato e teso, con le passioni ben scoperte. Ma il regista cosa fa? Non racconta questo segmento narrativo con i canoni del puro melodramma, ma intuisce che la misura e la moderazione di sentimenti e gesti renderebbero questo incontro e questa nuova confessione autobiografica, più intima e reale, e di conseguenza più comprensibile al pubblico.
Ma chi è stato quindi questo grande amore di gioventù che Almodóvar ha voluto finalmente dichiarare a tutto il mondo? Nel film non ci sono molti indizi, è vero, ma qualcosa ci dice comunque: per esempio ci dice che i due suonarono in un complesso punk parodistico e condivisero una seria passione per la cantante messicana Chavela Vargas, una costante anche di precedenti pellicole di Almodóvar e che segna un’epoca precisa, quella dei suoi primi e iconoclasti film e del duo punk con Fabio McNamara nel 1983. Che sia lui?
Il terzo blocco, che è un po’ a dir il vero, la cornice dell’intero film, è ovviamente la storia del piccolo Salvador Mallo che con la madre Penélope Cruz e il padre Raúl Arévalo si trasferiscono nella valenciana Paterna, dalle affascinanti case scavate nelle grotte e dipinte tutte di bianco e caratterizzata da una luce abbacinante, come se il sole illuminasse l’infanzia per svelarne i dettagli che poi, poco a poco, creano un uomo. Personalmente è il segmento narrativo che ho preferito insieme al primo. Qui, Almodóvar è un po’ García Lorca, usa simboli precisi per raccontare non tanto una storia, quanto dei sentimenti, delle emozioni, dei desideri. La luce che filtra dall’alto, i cunicoli che formano le stanze, il sole che riflette sulla calce bianca e infine il corpo nudo e generoso di César Vicente che si lava in una tinozza, in una scena di grande impatto erotico per luci, taglio e sguardo. Scena che causa nel piccolo Salvador, interpretato da Asier Flores, un’improvvisa febbre con svenimento, imputata a una ipotetica insolazione.
Questo blocco non si riduce solo al magico e fiabesco incontro con il desiderio del piccolo Salvador, ovvero il climax finale dell’intero film e che è poi l’incipit della scrittura di El primer deseo, il nuovo film di Salvador Mallo dopo aver fatto pace con i suoi dolori; ma con la presenza della madre, ruolo fondamentale nella cinematografia almodovariana, e il tema del paese natale o del paesino lontano dalle luci e dai rumori della metropoli, ritroviamo la riflessione sul passato, tanto cara ad Almodóvar, dove madre e “pueblo” sono sinonimi di grembo, di culla, di emozione e amore primigeni. Tant’è che è proprio in questo blocco che troviamo, seppur meno feroce che altrove, l’attacco alla chiesa e a tutto il mondo ecclesiastico castratore della Spagna cattofascista di Franco: altra corrispondenza tra Dolor y Gloria e La mala educación.
Nell’esibizione del corpo nudo di César Vicente, inoltre, il regista firma un quadro di incredibile bellezza formale che va ben oltre il tema del nudo in sé, ma conferisce al corpo in tutta la sua verità il valore linguistico che gli appartiene per natura e il potere proprion dell’oggetto magico proppiano, il dono da cui scaturisce la vittoria finale, il matrimonio, in questo caso, con se stesso, e la pace ritrovata nel ricordo del rimosso. Che il corpo nudo di César Vicente sia il dono o il donatore è difficile dirlo, ma sicuramente è il climax che dà vita all’ultima svolta narrativa e da cui parte la conclusione di Dolor y Gloria.
Conclusione che, come mise en abyme, segue il più classico degli espedienti narratologici da Shakespeare in avanti per insertare nella finzione cinematografica di Dolor y Gloria, un’altra finzione cinematografica dello stesso film, ovvero l’infanzia del regista a Paterna, e trasfigurarla in realtà, nella realtà del regista Almodóvar che con Dolor y gloria ha filmato e concluso ciò che Salvador Mallo si sta accingendo a girare con El primer deseo.
Passato, maternità, melodramma, erotismo, passioni radicali ed estreme, anticlericalismo, metalinguaggio e metacinema. Uno dei migliori Almodóvar di sempre.
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