Regia di Pedro Almodóvar vedi scheda film
La cifra stilistica del cinema di Almodovar è in grado di essere personale ma universale al tempo stesso, evocativa come poche altre in quella dimensione della memoria in cui il cinema diventa l’intimo ricordo al sapore di “pipì, gelsomino e brezza d’estate”.
Dolor y gloria non è soltanto un film autobiografico. È tante cose insieme. Un calvario in cerca di redenzione. La spasmodica ricerca di una via di salvezza verso uno stato di felicità. È la conclusione del racconto epico che il cinema ha operato su sé stesso così com’era avvenuto in Nuovo Cinema Paradiso e l’inizio di un intimo e sussurrato elogio del cinema, espressione di un soggettivismo intrinseco, dal gusto alessandrino, dove l’angoscia e l’inquietudine del soggetto prevalgono e soffocano la narrazione esteriore. Non si celebra il furore dell’eroe, la piena convinzione nei suoi mezzi o il successo, piuttosto il suo turbamento interiore, l’angustia di un’intera esistenza che si perpetua in un’iterata notte della fede di matrice laicistica. La cifra stilistica del cinema di Almodovar è in grado di essere personale ma universale al tempo stesso, evocativa come poche altre in quella dimensione della memoria in cui il cinema diventa l’intimo ricordo al sapore di “pipì, gelsomino e brezza d’estate”. Il potere immaginifico della grammatica cinematografica del regista trova conferma in quei contorni cromatici netti, vividi che sono l’ossimoro vivente della condizione interiore di Salvador, protagonista della pellicola. E l’eroina diventa farmacon per accedere ad una dimensione altra, quella del tempo perduto, quella in cui fuggire il grigiore e la noia del tempo presente. Per sopperire attraverso l’evasione ad una vita fatta di vuoti e assenze, stigmatizzata nei pixel di documenti sparsi sullo schermo di un pc, narrata per episodi irriducibili in un’unica narrazione. Una vita che è possibile ricucire attraverso il sapiente intreccio narrativo che si svolge per epifanie, forza viva di questo film, attese e impreviste. La via della redenzione è tormentata dalle increspature di un passato che grida vendetta e giustizia, in un rapporto da ritrovare con la madre e con sé stesso, per fissare una volta per tutte i contorni della propria identità, troppo a lungo taciuta e sotterrata. E per farlo è necessario saldare i conti col proprio passato. Con Alberto Crespo, attore con il quale i rapporti si erano interrotti trent’anni prima fra tante cose accennate e non dette, in attesa di un chiarimento. Con Federico, il grande amore della sua vita, un amore vissuto in condizione precaria, coltivato nell’assenza e nel ricordo nostalgico di quegli anni. Ed infine con la madre Jacinta, donna di polso, capace di scegliere la via migliore per il figlio nell’ oceano di arretratezza e degrado sociale in cui versava la famiglia di Salvador ma con il grande limite religioso e culturale di non aver mai accettato l’omosessualità del figlio. Il dolore interiore di Salvador emerge in superfice al punto da sfociare in una molteplicità di malattie e disturbi psicosomatici. Con la rimozione di un’osteofitosi che gli occlude l’esofago, Salvador sarà finalmente libero di gridare, raccontare e superare il suo dolore con la matita che meglio padroneggia: la macchina da presa.
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