Regia di Pedro Almodóvar vedi scheda film
Dolor y gloria o Being Pedro Almodovar
Dolor y gloria o Being Pedro Almodovar. Nel 1980 esce Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón, si contano i 40 anni di carriera ed è arrivato il momento di bilanci. In Dolor y gloria c'è lui, Pedro Almodovar, i suoi film, gli attori che con lui hanno raggiunto il successo internazionale, i temi chiave che hanno incarnato quei volti. Negli ultimi 40 anni abbiamo imparato a conoscere e amare il regista spagnolo e a comporre e ricomporre il mondo almodovariano attraverso i suoi film. E così, mentre il protagonista/regista fa il punto della propria vita, il forte legame con la madre, gli acciacchi, il cinema, il primo desiderio omoerotico, rievocando l'universo camp e gli eccessi della movida madrilena degli anni 80, nel nostro immaginario fanno capolino tutte le immagini che ci ha regalato di quel mondo. Schivo, riservato, l'alter ego Antonio Banderas (a sua volta messo in scena da due ulteriori attori, Asier Etxeandía a teatro, e Asier Flores che lo interpreta da bambino) recita con pudore e grazia puntellando i movimenti di sottili movenze appena accennate e quasi scivola in scena (e di scena in scena nel mondo parallelo della propria infanzia) in un incessante riannodare relazioni, ricordare il passato e fare ammenda, alla ricerca di nuove traiettorie, tra dolori e gloria. I dolori sono fisici, dovuti all'invecchiamento, elencati in un passaggio di animazione grafica di Juan Gatti, autore anche dei titoli. E già in questo passaggio, vengono alla luce i dolori dell'anima, e non solo quelli resi manifesti dalla voice over. "Ci ho messo 32 anni per riconciliarmi con questo film" dice il regista-protagonista indicando il poster di Sabor dove campeggia una fragola al posto della lingua in un'enorme bocca. La battuta si riferisce al rapporto di amore/odio con l'attore che interpretò Sabor ma la frase è rivolta alla locandina e tutto fa pensare alla collaborazione professionale e all'amicizia con Gatti interrotta anni addietro, rinsaldata con questo film. In un copione, i dolori esistenziali e i lutti, possono incarnarsi ed essere elaborati, e così Dolor y gloria riporta in vita la tanto amata madre, in due età diverse, interpretate ancora una volta da Penelope Cruz, una donna del dopoguerra afflitta da umiliazioni, ristrettezze economiche e solitudine e dalla matura Julieta Serrano. Con quest'ultima può passeggiare per i corridoi del suo appartamento (ricostruito, con molti elementi di scenografia provenienti dalla casa dello stesso Almodovar) e conversare apertamente e onestamente ancora una volta, fino a dilungarsi sull'"amortajar", la scelta della vestizione funeraria. Allo stesso modo un monologo teatrale evoca Marcelo (l'argentino Alberto Sbaraglia) un antico amore, ex-tossicodipendente, con cui scambiarsi affettuosità in un ultimo incontro, come a resuscitare e poter dire personalmente addio a tanti degli amici che negli anni 80 e 90 Almodovar perse a causa della loro dipendenza da eroina. E veniamo alla gloria. Inizialmente la voice off allude al successo professionale, ma all'interno del film ci si limita a una scena in cui la cineteca invita Mallo/Banderas a presentare la versione restaurata di Sabor. Per giunta la modesta sala cinematografica, gremita di appassionati che acclamano l'autore per le banali domande di rito, viene da lui disertata. La gloria è relativa, e la gioia risiede nel potere terapeutico del cinema: il dolore e la gloria sono il piscio e il gelsomino, gli odori che la brezza portava all'olfatto di Salvador Mallo alias Pedro Almodovar durante le proiezioni al cinematografo. L'intero film verte sull'associazione tra cinema e memoria, memoria del personaggio all'interno del film, memoria del regista che ha creato forti parallelismi tra sè e il suo alias, e inevitabilmente memoria nostra in quanto attinge temi e volti dal corpus cinematografico di Almodovar regista a noi familiari, rendendo l'artificio ancora più catartico per il pubblico. Non tutto è dolore se sullo schermo può riportare in vita e riconciliarsi con gli affetti persi, risalendo fino a chi per primo aveva svegliato in lui il desiderio, in punta di piedi e grande tenerezza. E, come in una scatola cinese, il film chiude il cerchio, rappresentando se stesso.
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