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M.A.S.H.

Regia di Robert Altman vedi scheda film

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La recensione su M.A.S.H.

di Peppe Comune
9 stelle

Guerra di Corea, ospedale da campo 4077, gli elicotteri di soccorso trasportano continuamente i soldati feriti che arrivano dal ventre caldo del conflitto. Ma la guerra sembra una cosa lontana in quel campo ospedale, un luogo dove vige la più assoluta anarchia, con gli ufficiali medici che alternano al lavoro in sala operatoria, sbronze gaudiose, spinelli, scappatelle sessuali con le infermiere e scherzi di ogni tipo. A tenere allegra l’intera compagnia ci pensano soprattutto Benjamin “Occhio di falco” Pierce (Donald Sutherland), John “Trapper” McIntyre (Elliot Gould) e Augustus “Duke” Forrest (Tom Skerrit), tre ufficiali medici tanto eccezionalmente bravi nel loro lavoro quanto inclini a non prendersi e a non prendere niente sul serio. Vittime principali delle loro goliardate sono soprattutto il religiosissimo maggiore Frank Burns (Robert Duvall) e la capo infermiera, maggiore Margaret “Bollore” Houlihan (Sally Kellerman), gli unici fanatici della divisa e dell’assoluto rispetto delle regole, che per il fatto di voler imporre un po’ di ordine nelle teste scapestrate dei loro colleghi vengono fatti oggetto degli scherzi più atroci (come quello di un loro amplesso sessuale fatto diffondere per l'intero campo dagli altoparlanti). Altra varia umanità popola il campo, ognuno con le proprie stramberie, come il colonnello Henry Blake (Roger Bowen), un ufficiale assai poco severo come comandante e molto sensibile invece al fascino della sottana, il generale Hammond (George Wood), che sembra preoccuparsi solo della sua squadra di football e delle sfide da organizzare con quelle delle altre compagnie, il prete in perenne crisi di coscienza “Vin santo” (Rene Auberjonois), il capitano “Cassiodoro" Waldoski (John Schuck), il dentista del campo, un super dotato da fare invidia, e tanti altri, tutti con i pensieri rivolti altrove.

 

Donald Sutherland, Elliott Gould

M.A.S.H. (1969): Donald Sutherland, Elliott Gould

 

“M.A.S.H” (acronimo di Mobile Army Surgical Hospital) è un attacco frontale ad ogni logica guerrafondaia compiuto con l’arma corrosiva e dissacratoria della farsa. Non c’è una trama portante a reggere le sorti del film, il campo ospedale è come un puzzle scomponibile in più parti e dalla coralità sovrapponibile, una sarabanda disordinata di situazioni ludiche che si intrecciano tra di loro senza che alla base vi sia la ricerca ostinata di una coerente linearità narrativa. E’ il modo di fare cinema di Robert Altman questo, un marchio di fabbrica subito riconoscibile, come l’uso assai sapiente del sonoro, che, nel suo cinema, da entità immateriale ed esterna si fa concreta attuazione di un idea in continuo movimento. Qui sono gli altoparlanti del campo a conferire al sonoro una centralità subitamente riconoscibile, balbettano messaggi sgangherati ed informazioni paradossali, come una voce confusa che suona dissonante e beffarda insieme, che, nell’accrescere la sensazione di folle irrealtà che impera nel campo, tende ad accentuare le suggestioni iconoclaste che vi sono chiaramente annidate. Si parla della guerra di Corea ma ogni riferimento conduce alla coevo “pantano” vietnamita, si scherza e si ride ma l’amarezza per un assurda guerra sosta agli angoli di quelle tende adibite a sale operatorie dove si effettuano più operazioni contemporaneamente su corpi smembrati dal fuoco nemico. “Non credo sia utile fare un film antimilitarista che verrà visto solo dalla gente che la pensa già come voi. Tutti gli altri non cambieranno idea. Credo di più all’azione sotterranea, nell’azione inconscia. Guardo M.A.S.H. e so che lo spettatore che ride, ride in realtà di se stesso, e che dovrebbe vergognarsi di ridere. La maggior parte non andrà così lontano, ma qualcuno ci arriverà”. Si, è probabilmente vero quello che disse Robert Altman, la maggior parte, ancora oggi, si fermerà alla superficie, alle battuta da caserma di bassa lega, alle continue allusioni sessuali (a cominciare dai nomignoli affibbiati ad ognuno), ai luoghi comuni infarciti di scurrile volgarità, alle goliardate messe a punto da simpatici buontemponi. Eppure occorre andare oltre, per scorgervi per intero l’intenzione di rappresentare l’orrore della guerra attraverso la distratta attenzione che questi ufficiali medici dimostrano di avere nei riguardi della gratuità della morte e la spensieratezza di spirito che si accompagna alla follia del loro calcolato disordine. L’ospedale da campo si trova poco lontano dalla linea del fronte, i corpi dilaniati e impregnati di sangue ci informano che poco lontano c’è una guerra che si sta combattendo senza esclusioni di colpi, una guerra che occupa i medici del campo giusto il tempo di addentrare le loro mani nei toraci aperti dei soldati, per metterne a posto i pezzi e segare quelli ormai andati, una guerra che è avvertita come un qualcosa di estranea ed esterna al campo, riferibile esclusivamente alle fredde strategie dei capi militari, alle loro manie di potenza. Non c’è necessità di far vedere la guerra in diretta o il volto del nemico, basta mostrare gli effetti devastanti che produce e irriderne le logiche che la legittimano rappresentando le gesta antieroiche di questi soldati scapestrati avversi ad ogni regole imposta, che agli echi distorti di una guerra assurda rispondono con l'ostentata ricerca di un assurda normalità. Il martini servito “rigorosamente” con l’oliva, le partite di golf effettuate su improbabili campi di fortuna, il contenitore che dovrebbe contenere del sangue trasformato in frigo per la birra, l’organizzazione della partita di football su cui scommettere molti soldi, gli scherzi atroci che si compiono in ogni momento, diventono un qualcosa che sfugge al semplice spirito di sopravvivenza per assurgere a simbolo di una grottesca rappresentazione dell’assurdidà della guerra. L’irrealtà dell’ospedale da campo, col suo farsi scherno di ogni tipo di autorità e di ogni (ir)ragionevole senso di responsabilità, aumenta per contrasto il senso tragico della guerra perché ne mette in risalto il lato più subdolo e nascosto, quello che porta ad abituarsi al suo ciclico presentarsi come ad un qualcosa di ineluttabile da cui non si può in alcun modo prescindere. Anche all’orrore ci si può abituare, come succede a questi ufficiali medici che si trovano a dovervi convivere continuamente e a cui possono opporre solo la consapevolezza di sapersi delle vittime (“Quest’uomo è un prigioniero di guerra signore” dice un soldato mostrando un ferito. “Lo sei anche tu, solo che non lo sai”, gli risponde Benjamin “Occhio di falco” Pierce). Si racconta che ad un certo punto delle riprese Elliot Gould e Donald Suntherland si rivolsero adirati alla produzione perché ritenevano che Robert Altman fosse un folle e che la piega che avevano preso le riprese del film potesse nuocere alla loro, ancora vergine, carriera. Mai previsione fu più sbagliata, il film ebbe un enorme successo, vinse la Palma d’oro a Cannes e ottenne cinque nomination agli Oscar (incluse quelle come miglior film e miglior regia ) ricevendo solo quello per la sceneggiatura a Ring Lardner (fatto assai paradossale se si considera che Lardner ripudiò il film accusando Altman di aver totalmente stravolto i dialoghi originali e averne aggiunto molti altri). Evidentemente, i due attori non erano ancora abituati all’occhio analitico di un maestro anticonvenzionale.

 

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