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Primal Rage

Regia di Patrick Magee vedi scheda film

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La recensione su Primal Rage

di scapigliato
8 stelle

Ha le coordinate strutturali della fiaba il film di Patrick Magee, ispirato alla leggenda del Oh-Mah, essere mitologico della cultura nativa americana da cui deriverebbe l’attuale mito del sasquatch e del bigfoot. Gli elementi narrativi, sia gli esistenti che gli eventi, sono semplici ed archetipali. Abbiamo un giovane appena uscito di prigione che se ne torna a casa insieme alla sua altrettanto giovane moglie lungo una strada poco battuta che attraversa la spettacolare Redwood Forest, tra California e Oregon, caratterizzata da una selva fitta e dagli alberi giganteschi. Abbiamo quindi una giovane coppia che in seguito verrà divisa dal mostro. Da qui le successive peripezie dell’eroe per salvare la bella dalla bestia. Abbiamo il viaggio, la sosta prima dell’avventura, il matto del villaggio che fa da guardiano della soglia e ironicamente prevede il destino dei protagonisti; abbiamo un vecchio sceriffo nativo che fa da grande saggio e aiutante; abbiamo la sosta imprudente nel mezzo della natura selvaggia con tanto di copula imbarazzante che attiva infatti l’attacco dell’ominide e poi, a catena, la fuga rocambolesca prima lungo la scarpata e poi lungo il torrente – tana del bianconiglio che porta da un luogo all’altro, in questo caso dalla civiltà e dal raziocinio alla ferinità della natura selvaggia e all’incubo dell’improbabile criptozoologico – la nudità, l’intrigo della foresta, l’incontro con i bifolchi cattivi, la separazione, il riposo del guerriero curato da una strega, la ricerca, la lotta, la morte – con tutti i suoi simboli – e infine sacrificio e salvezza.

La forza del film sta in diversi aspetti. Primo tra tutti la storia. Per molti può essere il solito déjà vu, ma queste sono dopotutto le vere narrazioni, quelle che prendono il mito, lo rielaborano e lo perpetuano, raccontando il già conosciuto più e più volte, con o senza varianti. Sterili quindi le polemiche di tanta critica. Va evidenziato come siano quasi incalcolabili i film horror che trattano la figura del bigfoot. Si parte da Jû jin yuki otoko (Ishiro Honda, 1955) e soprattutto dal capostipite occidentale The Abominable Snowman (Val Guest, 1957), qualche ovvia incursione nel filone lungo i settanta – controcultura, hippies, richiamo della natura, gli slasher dell’epoca – come Bigfoot (Robert F. Slatzer, 1970), il titolo più significativo del novecento ovvero The Legend of Bobby Creek (Charles B. Pierce, 1972), Sasquatch – The Legend of Bigfoot (Ed Ragozzino, 1976), Creature of Black Lake (Joy N. Houck Jr., 1976), il nostro imbarazzante Yeti – il mostro del XX secolo (Gianfranco Parolini, 1977; Parolini che è sempre stato ottimo innovatore qui mostra molta stanchezza) e il tv movie Snowbeast (Herb Wallerstein, 1977).

Chiusi gli anni settanta, gli anni degli animal attack movie, degli ecovengeance e soprattutto dei disaster movies, bisogna aspettare il nuovo secolo, le nuove paure, il neoruralismo e i nuovi interessi criptoscientifici riguardo i misteri delle profonde ed inesplorate foreste americane per rintracciare il corpus ad oggi più sostanzioso di questo filone, purtroppo mai preso in considerazione dal cinema main stream e invece spesso circoscritto nei perimetri e nei limiti del cinema di serie Z se non addirittura in titoli ai limiti dell’amatoriale. Si possono citare The Untold (Jonas Quastel, 2002), The Unknow (Karl Kozak, 2007), Devil on the Mountain conosciuto anche come Sasquatch Mountain (Steven R. Monroe, 2006), l’indie Howls (Jamie Tracy, 2011), addirittura due DeCoteau, 1313: Bigfoot Island (David DeCoteau, 2012), Willow Creek (Bobcat Goldthwait, 2013), Exists (2014) e moltissimi altri prima di arrivare a quello che è a tutt’oggi forse il miglior film dedicato alla figura del bigfoot, ovvero Primal Rage.

Il bigfoot è una questione redneck. Ovvero, è un mito dell’America rurale e del suo ventre più conservatore e bifolco ben rappresentato in altri film, ovviamente horror, soprattutto la saga di Wrong Turn (2003-2014). Non stupisce quindi che la quasi totalità delle produzioni sia semi professionale o comunque pensata e distribuita per un pubblico casalingo e senza pretese, dove la quantità dei oh my god moments è preferita alla qualità estetica e professionale. Primal Rage esce da questo vecchio schema e giocando sulla struttura fiabesca riesce a costruire un plot di notevole impatto. Inoltre, utilizza esclusivamente un trucco prostetico e sa restituire un’atmosfera di racconto ancestrale e primitivo, sensibile e viscerale che il digitale non può fare. Gli scivoloni comunque ci sono. Il più grande è la rappresentazione dell’ominide. Fin che non si manifesta per intero è efficace come mostruosità strisciante, presenza ferina, selvatica e dichiaratamente erotizzata dato l’interesse del mostro per la femmina protagonista, mentre quando appare a figura completa, nonostante il pregevole lavoro di trucco, ci sono delle “umanizzazioni” innecessarie che tolgono l’efficacia primitiva e mostruosa del Oh-Mah come la maschera di legno, le cortecce di legno usate come armatura e faretra e una coscienza fuori luogo a cui era preferibile l’istintualità animalesca che caratterizzava il mostro fin che restava celato nel fitto della foresta. Ci si aspettava anche, dato lo strisciante motivo erotico, qualche nudo, qualche affondo sessuale e qualche audacia in più.

Va anche detto che stupisce l’attore protagonista Andrew Joseph Montgomery. Marco Marchetti di Nocturno, poverino, pecca di poca informazione e lo liquida come «debuttante col fisico al retrogusto di steroidi», quando in realtà nel 2015, tre anni prima di girare Primal Rage, dopo un incidente in moto, a Montgomery è stato amputato il piede sinistro e oggi cammina con una protesi che parte da metà polpaccio. In queste condizioni, come spesso accade a chi subisce una sorte tanto drammatica, non ci si perde d’animo e ci si attiva per mantenere una condizione fisica perfetta e soprattutto per reagire sia con la testa che con il fisico alle botte della vita. Bastava un breve giro in rete, su Instagram per esempio, per conoscere davvero l’uomo Andrew Joseph Montgomery, sorprendentemente in parte ed efficace come presenza scenica.

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