Regia di Benjamín Naishtat vedi scheda film
Con tre anni di ritardo è arrivato in Italia "Rojo", film argentino diretto da Benjamin Naishtat, presentato in anteprima mondiale al Toronto Film Festival del 2018. È arrivato direttamente in streaming anche se avrebbe meritato un'apparizione in sala in condizioni normali.
Siamo di fronte ad un dramma socio-politico, ambientato, come dice la didascalia iniziale, nel 1975 in una imprecisata provincia argentina. La data è fondamentale perché ci proietta in un periodo storico preciso. Nel paese vige una profonda crisi politica che porterà al colpo di stato del 24 marzo 1976 grazie al quale il generale Videla prenderà il potere inaugurando una stagione di crimini politici. Alla vigilia, dunque, di un evento che cambierà la storia successiva del paese, Naishtat racconta di un avvocato che, suo malgrado, è protagonista di un parapiglia provocato da uno sconosciuto. Costui chiede, in malo modo, di cedergli il posto che tiene occupato senza cenare in attesa della moglie ritardataria. L'episodio sembra chiudersi con l'allontanamento del facinoroso soggetto dal ristorante ma l'onta patita è troppo grossa perché l'uomo metta a tacere il proprio orgoglio. La tragedia è, dunque, dietro l'angolo.
Tramite il pretesto di un litigio Benjamin Naishtat analizza il punto della situazione alla vigilia del golpe militare nel suo paese. E lo fa per simboli. Claudio, lo sprezzante avvocato che umilia lo sconosciuto davanti alla clientela del ristorante, è l'emblema di una borghesia arrogante che si arricchisce sulla pelle dei poveracci. Ne vediamo un esempio lampante negli intrallazzi tra Claudio e l'amico di famiglia che gli chiede di supportarlo nell'acquisto di una casa "senza proprietario". Per una busta di bigliettoni profumata di illegalità Claudio non si farà scrupolo di coinvolgere un cliente in rovina che non sa come ottenere un prestito. L'uomo, disoccupato e sul lastrico, appartiene, come il nostro sconosciuto, ad una classe sociale priva di spina dorsale che non è riuscita a combinare nulla di buono e, nonostante ciò, chiede di godere privilegi che non le spettano. Questi mediocri soggetti vorrebbero "banchettare" al "tavolo" dei più ricchi senza averne i requisiti. Respinti, con alterigia, da chi controlla la politica e il welfare, questi piagnucolosi e spesso violenti proletari finiscono per abbracciare ideali politici di dubbia moralità. È il caso del nostro sconosciuto avventore. Altro simbolo è il giovane Santiago che svela una crisi di valori umani che alimenta l'estremismo ideologico che, a sua volta, suffraga quello politico.
Due luoghi rivestono un'importanza simbolica assoluta in questa ricostruzione storica. Il deserto dove viene abbandonato il corpo della vittima fa volare il pensiero ai tanti uomini e donne scomparsi nell'oblio dell'impunità. La casa vuota ci rammenta i tanti esuli costretti alla fuga per non essere gettati tra le sterpaglie di un deserto o nelle acque dell'oceano.
Infine Naishtat dà volto all'assoluzione dal peccato commesso dalla classe borghese. L'assoluzione è l'ispettore Sinclair, il "cileno", un personaggio ambiguo, diventato eroe della televisione argentina dopo un passato in polizia, forse quella politica che durante il golpe di Pinochet faceva sparire i giovani dissidenti cileni. Sinclair ha fiuto. Scopre e nasconde il crimine e ne diventa giudice. Facendosi scudo di un'ipocrita spiritualità, sceglie chi è bene cercare, stabilisce chi è bene lasciar marcire tra gli arbusti rinsecchiti dal sole. Sinclair concede l'assoluzione in virtù di una morale superiore che giustifica il crimine commesso in nome di Dio, della patria, dell'onore. I sobillatori meritano un posto nell'Inferno rosso della morte dove il colore della loro dottrina si mescola al sangue della vita estirpata in un contesto di pusillanime noncuranza e sterile partecipazione alla politica, quella vera, quella rivolta alla risoluzione dei problemi comuni.
Alfredo Castro, che definirei il Marlon Brando del Sud America, giganteggia nelle poche scene in cui viene chiamato ad interagire col protagonista mentre Naishtat, che sembra rivolgersi, come modello al "Tony Manero" di Pablo Larrain, ricostruisce un luogo e un tempo di responsabilità individuali per dimostrare come ogni grande evento della storia si concretizza quando possiede ampie basi d'appoggio. L'operazione funziona grazie agli attori, alla regia che intreccia con perizia le varie sottotrame, allo stile di ripresa che rievoca le novelas del passato, alla texture fotografica che ricorda le vecchie fotografie degli anni Settanta, ora, inevitabilmente, seppiate dal trascorrere degli anni.
Questo "Rojo" non sarà in grado di esercitare un grande appeal sul pubblico per la mancanza di nomi di spicco (se si esclude Alfredo Castro) ma è sicuramente un film a cui dar credito. Consigliato.
Chili
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