Regia di Andrea Bussmann vedi scheda film
Sull'umanità il sole è sempre al tramonto. In quell'istante infinito, di buio che vince, di luce che non vuole morire, si stempera il grido della sua ancestrale inquietudine.
La storia dov’è. Forse è rimasta là in fondo, oltre il buio, dietro il ricordo di chi la racconta. In ogni caso, non c’è più la terra, a sostenerla. Si regge da sola, a mezz’aria, pendendo dal cielo, mentre l’uomo, a stento, la fa sua strappandola al mito. Basta un volto parlante, che affiora dalla penombra, per renderla viva. Non necessita di niente più che un’anima sfocata, di un soffio di voce, di labbra che si muovono dentro il tenue riflesso di una fiamma notturna. È così che la leggenda si tramanda nel tempo: perpetuando la magia anche al di là dell’oblio, quando il sogno ormai lontano si confonde con la fantasia di un sonno eterno. È l’orizzonte infinito di Faust che stringe il suo patto con il diavolo, di fantasmi che camminano tra noi, di paradisi esotici abitati da fate. Sono realtà visibili ad occhi socchiusi, nel dormiveglia di un’illusione. Solo così, sforzando la vista, abituandola ai toni sommessi e confusi, si può aguzzare lo sguardo fino a renderlo tanto penetrante a curioso da puntare direttamente allo sfondo, a quel nulla oscuro che, d’un tratto, sembra un luogo promettente, verso cui dirigere tutte le attese. Difficile tirare le somme di un film in cui la verità è quella che resta ancora da dire, che potrebbe spiegare il senso del tutto, collegare i frammenti, cucire le impressioni spaiate dentro il tessuto di un’avventura. I potenziali eroi sono sorpresi nel loro smarrimento più puro, che, più che di disperazione, odora di poesia incompiuta, di epica mancata. Il filo del discorso girovaga intorno alle loro figure che si trascinano dietro un passato invisibile, eppure pesante, carico di suggestioni, di lezioni imparate dolorosamente. L’esperienza è una nobilissima pena che grava, tacita, sulla fatica di rievocarla, racchiudendo l’atavica ricchezza di cui sono piene tutte le culture, quelle più evolute e velleitarie come quelle più primitive, quelle che mirano a esplorare universi ultraterreni, come quelle che cercano la gloria nel contatto con la natura, nell’amicizia, nel gusto dei misteri che popolano questo nostro mondo. Lo spettacolo in cartellone, questa volta, è un caleidoscopio dai colori bruni e spenti, avvolto in una bruma livellatrice, eppure vario nei suoni, nelle voci, nelle lingue: una rassegna di echi fuggitivi, colti nel momento in cui stanno per scomparire. Il sipario si scosta appena, giusto per un attimo, quel tanto che basta perché una maschera senza corpo possa sussurrare le ultime volontà del suo personaggio: un essere in procinto di sbiadire, che consegna alla memoria un’impronta anonima, ma permanente. “Faust” è un avatar universale, che solo per caso ha un nome. Lo circondano mille altre immortalità qualunque, prive di fama, facili da dimenticare.
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