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Ovosodo

Regia di Paolo Virzì vedi scheda film

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La recensione su Ovosodo

di MarioC
7 stelle

Può piacere o no ma è indubbio che Paolo Virzì abbia inventato uno stile e generato diversi nipotini (guardare il recente Short skin per credere: stessa ambientazione toscana, stesse venature malinconiche, stessa cronaca della gestazione di adolescenze sofferte). Uno stile che è in gran parte debitore della classica commedia all'italiana e che il regista ha saputo arricchire con elementi della modernità e dei conseguenti spaesamenti da essa indotti.

Ovosodo si inserisce in questo solco, apparentemente discontinuo rispetto alle prove precedenti di Virzì (in particolare rispetto a Ferie d'agosto, da cui emanava una salutare cattiveria, solo apparentemente annacquata dal morbo dell'italico qualunquismo), in realtà ad esse molto prossimo. Contiguità evidente nella capacità di ricostruire un ambiente con pochi tocchi (la Livorno popolare e marginale), la cura e l’amore verso i personaggi, non solo abbozzati ma proprio seguiti nelle circonvoluzioni di anime sempre in bilico, l’accurata individuazioni di humus socio-culturali che determinano scelte ed azioni, ovvero ne costituiscono l’inevitabile antefatto.

 

Ovosodo è romanzo di formazione, come molti altri se ne son visti e si vedranno. La figura del giovane Pietro Manzani, inserito in una famiglia del tutto disfunzionale (madre deceduta, padre in gattabuia per non meglio precisati reati, matrigna giovane e già infelice, fratello diversamente abile, a suo modo l’unico in grado di accarezzare qualcosa che somigli alla felicità) cerca il suo spazio, con volontà e forza di gomito. Studia, ama, cresce. Sino a quando la vita lo condurrà ad un approdo diverso da quello immaginato, approdo accettato con un magone di piacevole rassegnazione, che è la indubbia virtù di chi sia riuscito a compiere con successo il proprio accidentato percorso di crescita.

Nulla di nuovo sotto il sole, ed è vero. Ma la mano di Virzì affresca con gioia e partecipe sincerità figurine a loro modo stinte e che, affidate alla sua sapiente cura, acquistano un fuoco ed un’oggettività impensati. In particolare nella descrizione dei rapporti di Pietro con il mondo esterno (si guardi all’amico ricco e viziato, alternativo più per noia e moda che per sentita scelta ideologica, alle donne che lo accompagneranno, la tigrotta svampita e la ragazza di casa, dolce e mansueta, alla professoressa dal disagio esistenziale celato dietro un ottimismo artefatto) la regia dà il meglio di sé: i contrasti, a volte comici, altre malinconicamente irrisolvibili, sono ben resi e risultano capaci di inserirsi appieno nel discorso sulla giovinezza che costituisce perno del soggetto e della sceneggiatura.

Al termine della visione un po’ di magone fa capolino anche tra gli spettatori: merito di una storia delineata senza sbavature ed impreziosita da una scrittura che, pur tra qualche tiritera superflua (la probabile relazione tra Tommaso e la professoressa) e coincidenze assurde (l’incontro a Roma tra Pietro e la ex), si mantiene compatta e sicura.

 

Bravi gli attori: Edoardo Gabbriellini in versione brufolosa manifesta un certo talento poi meglio sbozzato, Nicoletta Braschi rinuncia per una volta alle espressioni di perenne stupore per indossare con grazia i panni di una perdente, Claudia Pandolfi e Regina Orioli svolgono il compitino con dignità, non essendo del resto destinate a rimanere nell’Olimpo delle interpreti di massima vaglia.

Curiosità finale: tra i compagni di scuola di Pietro si intravede un giovanissimo Paolo Ruffini. Peccato che nessuno gli abbia successivamente consegnato il foglio di via valido per i set del globo terracqueo.

 

 

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