Quando il cinema si rivolge al passato, spesso lo fa per trovare una risposta ai problemi del presente. Spostarsi con la mente in un'epoca diversa da quella in cui si vive permette infatti di prendere le distanze dal contingente e di guadagnare la distanza necessaria a distaccarsi dalle cose per riuscire a giudicarle in maniera meno parziale. Ma non è tutto, poiché la conoscenza delle vicende di coloro che ci hanno preceduto ha, tra i molti pregi, quello di farci capire cosa siamo diventati e soprattuto la direzione in cui stiamo andando. In questo senso il nuovo lavoro di Alberto Fasulo, il primo di finzione in una filmografia dedicata al documentario (anche "TIR" in parte lo era), appare addirittura esplicito nel suo farsi strumento di conoscenza nei confronti di chi lo guarda. Collocato nell'Italia di fine Cinquecento e ambientato in un villaggio sperduto sui monti del Friuli, "Menocchio" è molte cose messe insieme: innanzitutto la storia di un "processo alle intenzioni", quelle del vecchio mugnaio incapace di rinunciare alle proprie idee anche quando si tratta di andare contro l'ipse dixit religioso; è poi la rappresentazione del Potere che difende se stesso e il proprio status, convinto di poterlo fare disciplinando i comportamenti e le coscienze della compagine sociale; ancora, è la messinscena di una resistenza che diventa ribellione quando si tratta di non abiurare alle verità dei fatti, quelle che nell'epoca del film vedevano l'istituzione religiosa al centro dello scandalo per il fatto di tradire il messaggio evangelico opprimendo l'esistenza di umiliati e offesi. Infine, se ciò non bastasse, è anche la sintesi di una ricerca storica e filologica operata ad ampio raggio (non solo documentaria ma anche artistica e sociale) e con una scientificità in grado di investire tutti gli aspetti del periodo preso in esame. Come peraltro dimostra la notizia che i risultati dell'indagine messa insieme da Fasulo per preparare il film sarà pubblicata in forma di saggio storico.
Viste le premesse appare ora più chiaro come l'intento del film sia quello di riflettere sulla complessità del reale, il nostro, trasfigurato in una forma più semplice e scarnificata, capace di farne vedere senza infingimenti i meccanismi e le sovrastrutture. Così facendo non si fatica a riconoscere nella vicenda di Menocchio e nel paesaggio che le fa da sfondo, le origini del peccato originale che oggi ci affligge e che - secondo molti storici - è stato il risultato delle restrizioni (in termini di progresso e di libertà individuali) attuate dalla Chiesa per difendersi dagli attacchi dei movimenti riformistici. La forza del film è quella di riuscire a farlo sentire attraverso la rigorosità della messinscena e delle scelte di regia operate da Fasulo, radicali e coraggiose alla stessa maniera di quelle del suo personaggio. La ricostruzione delle vicende realmente accadute a Domenico Scannella detto Menocchio sono appunto raccontate con una narrativa che polverizza riferimenti storici e ambientali, riferendosi esclusivamente a uno spazio di volta in volta definito dalla dialettica tra il protagonista e i suoi persecutori. Le aule dei tribunali e le segrete dove Menocchio è tenuto prigioniero cosi come i frame sui momenti di vita famigliare, più che ambienti definiti nelle rispettive concretezze diventano parte integrante di un non luogo in cui ad andare in scena sono le idee, i pensieri e gli stati d'animo del condannato insieme a quelle dei suoi persecutori. Come tali Fasulo li filma, facendo emerge la figura di Menocchio da tenebre che assomigliano a recessi dell'anima e insistendo sulla complicata messa a fuoco dei suoi antagonisti, spesso fuori quadro e definiti dalla conformazione visivamente incerta come potrebbe esserlo quella di chi ha qualcosa da nascondere. Il tutto in un rapporto di assoluta vicinanza con il volto del protagonista: la qual cosa se da una parte va nella direzione della morale tridentina, abituata a negare il corpo e i suoi bisogni, dall'altra restituisce Menocchio a una centralità (anche di posizione all'interno dell'inquadratura) in grado di restituire alla sua figura la dignità che altri gli avevano sottratto. D'altro canto a questa operazione di recupero Fasulo non è nuovo, avendo messo sempre al centro dei suoi film un umanità altrimenti destinata a rimanere "fuori campo".
Così, a dispetto di chi lo vorrebbe cancellare dal mondo, Menocchio cerca di restarvi attaccandosi il più possibile alle cose concrete e visibili. In questo senso è esemplare la prima sequenza in cui il contrasto tra luce e buio è lo stesso che esiste tra la volontà dei prelati di rifarsi a concetti astratti e assoluti e quella del protagonista, abituato a credere a ciò che vede e che tocca. Concetto non a caso suggellato dall'immagine di Menocchio che accarezza la mucca e poi la assiste in quello che di fatto è il miracolo più materico che possa esistere e cioè la nascita del vitellino. Girato in una dimensione claustrofobia e confessionale (a rimandare ancora una volta ai condizionamenti imposti alle persone dal clero controriformista) e fotografato (dallo stesso Fasulo) con riferimenti alla pittura fiamminga e , come dichiarato dalla stesso regista, a quella di Rembrandt, "Menocchio" è uno di quei film destinate a restare e, prima di tutto, a essere visti nel buio della sala cinematografica. Per questo gli auguriamo una distribuzione all'altezza della sua importanza.
Primo e unico film italiano del concorso internazionale di Locarno, il film di Fasulo entra nella lista dei lungometraggi da palmares.
(pubblicata su ondacinema.it)
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