Regia di Tonia Mishiali vedi scheda film
Elpidia (Stella Fyrogeni) è in visita dal ginecologo, che gli dice di non preoccuparsi per la sua salute, perché quelli che avverte lungo il suo corpo sono i tipici sintomi della menopausa. La donna deve quindi cominciare a confrontarsi con questa nuova fase della propria vita e, come tutte le donne della sua età, dovrebbe cercare di avvincere gli scompensi del corpo con una rinnovata vitalità. Ma Elpidia è sposata con Costas (Andreas Vasileiou), un uomo dispotico che passa tutto il tempo davanti alla televisione e che neanche si accorge della sua presenza in casa. Imprigionata in un matrimonio grigio, con la figlia e la piccola nipote lontane, l’unica sua compagnia è quella con l’amica Eleftheria (Popi Avraam), una donna ossessionata dai lifting. Gli rimane solo la libertà della mente, che la porta lontano, a riscoprire il piacere dei sensi a ad assecondare quei pensieri cattivi sempre tenuti a freno.
C’è una cinematografia che rimane abbastanza vitale, iscritta a pieno titolo nei problematici tracciati esistenziali generati dal fluire parcellizzato del post-moderno. È quella che nasce nella zona orientale del mediterraneo, tra la Grecia e la Turchia (nell’isola di Cipro in questo caso), un’area geografica abituata a specchiarsi in un mare che non muore mai, ma anche fagocitata da crisi di sistema che gli hanno fatto morire le migliori speranze. “Pause” della regista cipriota Tonia Mishiali è un film dal carattere claustrofobico che consuma tutta la sua essenza narrativa togliendo spazio vitale a polmoni che vorrebbero respirare aria nuova. È un interessante esempio di come si possa fare un buon film anche solo investendo sull’onesta esposizione di una profonda crisi esistenziale, sottraendo appigli consolatori ad ogni sua possibilità di riscatto, asciugando ogni volta gli occhi che vorrebbero piangere tutta la loro rabbia. Non fila tutto liscio però, la gravità della narrazione inciampa qualche volta in inquadrature (plongè) troppo insistite che vorrebbero sottintendere l’approssimarsi di una scelta definitiva, e neanche si trova un rimedio adeguato quando si tenta di alleggerirla indugiando sull’esplicito contrasto tra la “morte” sessuale di Elpidia e la carnalità troppo “rumorosa” dei suoi vicini di parete. Vizi di forma comunque perdonabili, nulla che intacchi irrimediabilmente la bontà dell’insieme, capace di eludere la seducente spettacolarizzazione del dolore giocando d’anticipo con la sua "desiderata" degenerazione. Tonia Mishiali ci dice abbastanza di una crisi particolare per farci capire quanto questa si leghi ad un’altra più generale, agisce di sottrazione di stati emotivi e slanci passionali senza mancare di farci sprofondare nella ferita emotività della donna. Ci porta a conoscere il momento esatto in cui Elpidia entra in uno stato di palese sconforto, ma non tutto quello che ha trasformato una condizione fisiologica per una donna della sua età in un baratro senza fine. Perché “Pause” è un altro film (proveniente, appunto, da quell’area geografica) che sa riflettere sulla più ampia crisi di sistema muovendo le mosse dalla sola posizione di precarietà della protagonista, capace di lasciar intravedere le crepe sociali concentrandosi sul come esse tendono ad acuire ulteriormente lo stato di solitudine della donna. È così che la crisi del corpo di Elpidia diventa una crisi di valori : perché la crisi della sua sessualità si trasforma, con estrema naturalezza anche, in crisi irreversibile di tutto quello in cui aveva sempre creduto. La femminilità della donna dovrebbe poggiarsi su nuove basi, rivitalizzarsi nell’andamento degli stessi piaceri attraverso modalità solo un po’ diverse. Ma non può farlo se la normalità di un corpo che segue il suo corso naturale è risucchiata nella normalizzata anaffettività delle relazioni umane, se si ha un marito che non sa esserle complice e l’unica complicità che sa offrirle la sua migliore amica è quella di apparire più giovane abbandonandosi ai rimedi “miracolosi” della chirurgia plastica. Vorrebbe comunicare tutto il suo disagio Elpidia, a qualcuno che sappia veramente ascoltarla, che sappia capire cosa si nasconde dietro il suo sottomesso mutismo. Vorrebbe mettere in pausa i suoi patemi interiori così come il corso della vita l’ha messa in pausa rispetto ai piaceri di cui potrebbe e vorrebbe ancora godere. Gli resta la libertà della mente, che elabora avvenimenti desiderati e intenzioni sottaciute, cose che si vorrebbero continuare a fare e pensieri “pericolosi” che iniziano ad insinuarsi nella sua nuova vita. La regia asseconda questo stato della mente, rendendo sempre più labile il confine tra la realtà e la fantasia, tra i pensieri che si fanno per tirare avanti e quelli unicamente indirizzati dai desideri repressi. Il confine (evidentemente) immaginato da Elpidia, che si è messa a camminare sull’orlo della sua scarna esistenza da quando l'età gli ha consegnato un corpo scaricato della sua appassionata vitalità. Un corpo bisognoso d’amore ma che non riesce neanche a ricevere comprensione. Un piccolo film che si iscrive a pieno titolo nell’interessante cinematografia “ellenica”.
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