Regia di Richard Brooks vedi scheda film
Stati Uniti, 1960. Quando lo scrittore, sceneggiatore e drammaturgo Truman Capote si trova, quasi per caso, a dover scrivere del massacro della famiglia Clutter, è già famoso. Anzi, è la vera star dei salotti-bene dell’industria dello spettacolo americano. Ha sulle spalle, e belli in mostra in tutte le librerie, due grandi successi di vendita; “Altre voci, altre stanze” e “Colazione da Tiffany”. Il suo lavoro a quattro mani con l’amica d’infanzia Harper Lee, “Il buio oltre la siepe”, è balzato da alcuni mesi in testa alle classifiche di vendita, ricevendo critiche entusiastiche. Cosa porta, quindi, uno degli uomini più in vista e più fortunati d’America, ad accettare di narrare (in quello che lui stesso definì, un ‘romanzo-verità’) la vita di due balordi, di due giovani che stanno pagando il più alto prezzo che si possa pagare per aver fallito la propria esistenza, e cioè con la vita stessa?
Sta nella risposta a questa domanda anche il senso ultimo del film di Richard Brooks, con la speranza – per nulla celata – che sia nostra premura accompagnarlo con la visione di un altro film centrato sulla vicenda. Quel “Truman Capote: A sangue freddo”, che nel 2005 il regista Bennett Miller girò dirigendo lo strepitoso e mai dimenticato Philip Seymour Hoffman.
Perché forse, dall’incrocio delle due visioni – con l’opera di Miller a far da controcanto intimo ed umanissimo all’asciutto resoconto del film di Brooks –, può venire fuori l’interessante spaccato di una tragedia che non lascia scampo. “Una storia che cambierà per sempre i miei giorni”, come ebbe a confessare lo stesso Capote. Il sogno americano che, precipitato in una sua reazione chimica impazzita, si ossida in un incubo senza salvezza; l’altra faccia della medaglia, il collo del benessere mentre cala la lama della disperazione.
Dick e Perry sono due ex galeotti, figli di famiglie disfunzionali, che partiti con l’idea di trovare negli abissi dei mari caraibici il tesoro di Cortez, si lasciano però trascinare via da un’altra mappa; quella che li porta ad Holcomb, nel Kansas (“Il cuore dell’America, la terra del grano, del mais, delle bibbie e del gas naturale!”), la sera di sabato 14 novembre 1959, verso la mezzanotte circa, davanti alla ‘River Valley Farm’ di H.W. Clutter.
E genialmente, da lì in poi, lo scrittore – ed il regista Brooks, con lui – rimette tutto in termini di guadagno, di oro demoniaco. Un piccolo trattato di numerologia, quasi. L’intero sistema, che dall’esterno sembra efficiente e dispensatore di utili, mostra internamente la sua natura di contabilità controversa e rapace. In soldoni: 400 miglia fatte per soli 40 dollari o poco più di bottino, 4 morti ammazzati, 4 ore per scegliere la giuria del processo e soli 3 giorni per istruirlo, 40 minuti per pronunziare il verdetto di condanna. Il boia che intasca 300 dollari ad esecuzione. Quarantacinque minuti per lasciare penzolare il collo al cappio, e far fermare il cuore di un uomo.
La matematica di questo film, che è anche la sinfonia visiva che ce lo fa apprezzare o rigettare secondo gusto, ordina ogni operazione fino alla sottrazione di segno finale; il killer, eroe di guerra e cantante fallito, ai piedi della forca vuole invocare perdono, ma non trova più a chi chiederlo questo perdono. Davanti a lui si sono azzerate tutte le possibili variabili, i conteggi, le somme formali ed i riporti di una storia americana e dannata.
Una storia che alla fine sappiamo evocata per intero da un tale, Floyd Wells, matricola carceraria numero KSP14323, che prima crea e maschera il movente del massacro e poi ce lo svela per intero. Per guadagnarci pure bene sopra. La libertà dalle sbarre e circa mille dollari di taglia. Il suo ‘tesoro di Cortez’, l’oro maledetto.
Post scriptum: Il film perde mordente a ¾ circa di minutaggio, per poi risollevarsi pienamente nel finale. Immagino solo, con uno script del genere, cosa ne avrebbe tirato fuori un John Huston in vena o – su registri narrativi di diverso tenore – quel Preston Sturges che mancò sempre storie drammatiche e a tutto tondo.
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