Regia di Amir Naderi vedi scheda film
Prima ancora di approdare alle sonorità (e chiassosità) urbane del suo periodo newyorchese, il regista ci consegna la sua personale visione del caos primordiale, un qualcosa che sarebbe lecito chiamare “L’inferno secondo Naderi”. Ovvero una dannazione sonora per lo spettatore costretto ad immedesimarsi per settanta minuti nei panni del giovane protagonista e condividere il suo forzato road movie, con le orecchie letteralmente straziate dal fischio di un vento sferzante che mugghia e ulula senza tregua al di sopra di un paesaggio fuori dal mondo, dove la lotta per la vita è ridotta all’essenziale per sopravvivere.
Naderi si prefigge il compito di rendere partecipe lo spettatore delle condizioni di precarietà in cui è costretta a vivere e vegetare la sua gente unitamente a quello, probabilmente involontario, di mettere a dura prova l’apparato uditorio dello spettatore, riuscendo a trovare il ritmo giusto essenzialmente negli ultimi dieci minuti quando tramite un ingenuo ma efficace montaggio alternato ci descrive lo sforzo di un ragazzo diventato adulto nel giro di pochi minuti che lotta spasmodicamente per la propria sopravvivenza, sequenza contrapposta ad una visione di decomposizione e di morte. E durante tutto l’arco del film la morte si respira a pieni polmoni e si palesa in tutto il suo gonfiore ed in tutta la sua identità profanata nelle sembianze di carcasse di animali putrescenti.
Le torrenziali immagini di un fiume in piena sull’aria trionfale della quinta sinfonia di Beethoven che vanno a porre il sigillo finale su una vicenda che respira di smisurati spazi claustrofobici, acquistano ovviamente una valenza simbolica liberatoria, ergendosi al tempo stesso ad apoteosi della caparbietà dell’uomo, equiparato nel finale ad un novello Napoleone del deserto, a dimostrazione di un flusso vitale che continua sempre a scorrere indisturbato, pur se altamente ineguale e vessatorio nei confronti delle individualità ad esso sottoposte.
In un certo qual senso s’impone un parallelismo tra l’inferno di “Acqua, terra e sabbia” e quelli di “Sound barrier” e di “Marathon”, dello stesso autore. Due civiltà a confronto precipitate nel medesimo imbarbarimento, che riescono a sopravvivere nonostante tutto alle asprezze di un mondo desertico così come a quello ancora più subdolo della civiltà industriale avanzata che ha assurto il rumore a fatuo simbolo della propria onnipotenza. E in fondo gli sforzi del ragazzo per far sprigionare l’acqua dalle viscere della terra oppure quelli del bambino sordomuto che cerca disperatamente tra i bombardamenti sonori della jungla metropolitana di estrarre dal passato lontane voci materne ormai smarrite sono entrambi emblematici di un naufragio vitale dell’uomo che potrà essere soltanto rinviato a data da destinare, ma che per nessun motivo potrà essere fatto rimanere lettera morta.
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