Regia di Robert Bresson vedi scheda film
La poesia drammatica di Robert Bresson è quella stralunata del pensiero incompiuto, della frase inconclusa, dell’azione lasciata a metà. È come se ognuno, nel suo piccolo, nella singhiozzante alternanza di impulsi ed esitazioni, riproducesse il paradossale modus operandi del destino, che prospetta il pericolo e poi annuncia la gloria, spinge verso l’amore e poi presenta l’odio. Come l’asino Balthazar, noi siamo le vittime impotenti dei mutevoli umori dei nostri padroni, che sono istinti e princìpi, disgrazie e fortune, sogni e paure. Restiamo sempre noi stessi, eppure in fondo diventiamo diversi, da un momento all’altro, come il somaro che cambia continuamente mestiere, da bestia da soma ad animale da circo, da cavalcatura per turisti a tenero regalo d’affetto. Vorremmo fermarci a riflettere, a goderci l’istante, ma l’incalzare degli eventi ci precede, vanificando i nostri piani, confondendo i nostri sentimenti. Noi siamo in parte ciò che ci capita, in parte ciò che gli altri vogliono da noi: il caso (hasard) è l’insieme delle forze esterne che ci investono, e su cui non abbiamo alcun controllo. Ciò che, in assoluto, più ignoriamo è quello che sarà di noi domani; e l’unica nostra certezza è che mai, e poi mai, potremo di nuovo essere quello che eravamo ieri.
Questo film è una tragica ballata filosofica, il cui ritmo avvolgente si chiude a spirale sul sanguinoso epilogo, come il girotondo di una danza sacrificale; verso la morte non si va mai dritti, ed è forse propria questa l’essenza della crudele imprevedibilità della nostra vita.
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