Regia di Giorgio Tirabassi vedi scheda film
Una strana aria – disillusa, fatalista, di cieli nuvolosi che sembrano celare misteriose, ineluttabili avversità e scariche di beffarda, feroce disperazione – avvolge e fagocita Il grande salto, sorprendente esordio alla regia di Giorgio Tirabassi.
Il compagno di sventure è quello di sempre, quello che t'aspetti; proprio lui: Ricky Memphis. Ed è subito come si potrebbe immaginare: di fattura romana e romanesca, in zona commedia caciarona abitata da piccoli delinquenti male in arnese, grana grossa e incedere sicuro e rassicurante.
E invece.
È uno sputo, uno spunto. Un punto.
Un «punto minuscolo nel grande disegno del destino», come a una certa declama l'illuminato nonché ruminante Memphys-Nello (sebbene, opportunamente, ragionate dosi di humour grottesco rischiarino la sempre più bizzarra materia), uno che va in bianco con le donne, con la vita, con la (non) casa (un fatiscente interrato-infernotto di una tristezza sconfinata), con il caso, con le cose.
L'altro, Rufetto, Rufino, fuffino (Tirabassi medesimo) vive a sbafo dai suoceri, con moglie e figlioletto a carico (dei suoceri, ovviamente).
Una bella coppia di sfigati.
La sfiga cosmica come stato della mente: mentre per uno c'è sempre una tv accesa che erutta di crisi, di bolle e di balle e l'altro s'abbevera di sbobbe pseudo-new age, l'idea dell'impresa criminosa che li possa mettere a posto è giusto una supposta prospettiva di benessere, infilata con implacabile scherno su per offese cavità.
Il “grande salto”, già.
«Tocca vede' 'ndo cascamo» (sempre Nello, Ornello, ornato di spiccia filosofia forse sgorgata dalle pantagrueliche cene a base di carne in scatola e birrette da due lire).
La cascata – proprio quando un sentimento di serenità s'inseminava nelle due teste balorde – è letterale e figurata, una sequela sterminata di rovinosi ruzzoloni che non si spiegano ma che dispiegano le vele e le leve di un destino crudele e burlone che neppure l'inevitabile fuga – in pratica un on the road tra gli scenari sospesi del Centro Italia e le strade della legge di Murphy rivelate con inesorabile tragicità – riesce a mitigare.
Un preludio alla consapevolezza che si traduce in resa, allorquando il culmine dell'incredibile percorso porta a un “miracolo al contrario” che è uno sguardo di traverso al cielo terso sopra il mare azzurro.
È un cinema che canta le gesta di sconfitti e perdenti, disperati ed emarginati, soli e sfortunati, il film di Tirabassi: e lo fa con gusto e con coraggio, con attitudine sincera, anche quando tocca derive bislacche e prende vie sconclusionate o postille che sembrano rinnegare assunto e tesi.
Un continuo gioco di scomposizione di sche(r)mi e dispositivi e abitudini (di quelli che hanno fatto e fanno le fortune tanto di prodotti autoriali quanto di commedie “cool”), nel quale corpi/facce/menti che trasudano tutta la poraccitudine dell'anima e assorbono, restituendola, l'opera cinica e canzonatoria di un imperscrutabile universo, assurgono al ruolo di pedine sacrificali e al contempo di presenze necessarie, di cuore del racconto, di raccordo del grande piano.
Qualunque esso sia.
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