Regia di Andres Muschietti vedi scheda film
Secondo appuntamento in sala per il live action di It, monolite didattico, saggio epocale sulle fobie e romanzo di formazione pop per antonomasia, il vero opus magnum dell’autore. Roba grossa, se si pensa che una buona fetta della popolazione mondiale guarda ai clown con sospetto dal 1986 in avanti.
Se per tutto il primo capitolo subiamo giocoforza l’operazione retrò di noto stampo televisivo (l’occasione era ghiotta per commissionare un film in stile Stand By Me), qua riprendiamo un po’ d’aria, un po’ di lucidità post emotiva se vogliamo.
I ragazzi del Club dei Perdenti sono cresciuti, si fa per dire, riproponendo grossomodo gli stessi schemi appresi durante l’infanzia. Solo questo basterebbe a cogliere la potenza didattica del materiale originale: la maturazione richiede una doppia riflessione, un doppio appuntamento con la paura, spesso neanche basta al primo tentativo. Le strade prese dai protagonisti nel scegliere di tornare a Derry e affrontare il salto nel buio coincidono grossomodo con una prima parte veloce ma ben giocata che lascia spazio al tema centrale del ricordo, della riscoperta, dove il film mostra evidentemente corda. Compatto, gustoso e stilisticamente affascinante il finale invece, lo showdown che ci viene mostrato è degno del rito di Chüd proposto nel libro.
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Abbondano i piccoli passi falsi, i classici di quando la sensibilità è troppo proiettata all’esterno, al pubblico, e si perde il focus. Valga su tutte la scena di Stan Uris nella vasca da bagno, talmente iconica che ha dettato la cifra per l’artwork, dalla prima edizione del romanzo in poi: Muschietti riesce anche a girarla con occhio caravaggesco, poi si svende e riduce in sala montaggio a pochi fotogrammi, forse mal gestiti. Sul versante opposto, alcuni riferimenti da ovazione alla Tartaruga, alla “Divoratrice di mondi”, potrebbero passare inosservati per lo spettatore dell’ultimo minuto (lo stesso, ricordiamo, che non usava il walkman e non andava in sala giochi, anche se qualcuno vorrebbe farglielo credere, quindi va imboccato).
Fonte di piacere sono gli effetti speciali dosati con intelligenza e gusto, fotografia e sonoro tengono il ritmo senza cadute, riuscendo a veicolare con efficacia le atmosfere tra l’amarcord ed il polveroso negozio d’antiquariato, tipica dei romanzi di King (rende onore con un simpatico cammeo, ha finalmente imparato a recitare).
Essere una delle sue poche trasposizioni ben riuscite, probabilmente l’unica a questi livelli, porta in dote qualche buon metro di vantaggio. Discreto il cast, con scelte indovinate ed un vaghissimo senso di perdita rispetto alla verve dei precedenti, giovani protagonisti: si faranno rivedere in una struttura -dovuta- a flash back/forward che confonde spesso i confini. Al contrario di quanto si vociferava, lo spazio dato a Skarsgård e alla sua creatura infernale risulta ben più consistente che in precedenza, potendo giocare ormai poco con il vedo/non vedo.
Come dopo la visione di un film di supereroi in mano ad un regista di caratura, la prima considerazione a sorgere, la più dolorosa, è sempre quella: non è questione di democrazia. Da quando si commercia in arte, l’arte guarda al suo pubblico e concentrando tante energie con quello generalista si finisce per giocare al ribasso. Il sottile equilibrio tra cinema totale, prodotto di consumo ed una certa pop art nel mezzo, è il campo sempre più instabile dove toccherà ai registi delle nuove leve misurarsi e tirarne fuori qualcosa di onesto, di palpabile, in un’epoca in cui anche gli anni Ottanta vengono pre-digeriti e reinventati un tanto al chilo: It, questo capitolo, ci riesce per il rotto della cuffia, muovendosi da equilibrista più che da clown.
Tim Curry non è una buona scusa per difendere l’indifendibile: la miniserie originale era e resta inguardabile quando sposta la telecamera da lì. Abbiamo ora un prodotto, ahinoi per tutti, ma degno. Un classico trattato da classico.
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Penultimo paragrafo.
No, non è questione di democrazia (non ho ancora visto Joker del trio Phoenix/Phillips/Cooper - ma già War Dogs era un segnale di, ehm, "svolta" -, però ho ben presente il tempo "sprecato" da Nolan con la sua bolsa trilogia chirottera).
Ultimo paragrafo.
No, non è una buona scusa. Magari qualcuno, fra qualche anno, innesterà in deepfake Curry in Muschietti...
Mi incuriosisce molto quel Joker. Dai, quello di mezzo nella trilogia chirottera si difende ancora per essere un prodotto da banco surgelati, sarà che basta una mezza citazione di Heat per intenerirmi.
Comunque lo svedesotto non è male, faranno il deepfake di Muschietti piuttosto? Chissà se regge
Vorrei solo precisare che la paura dei clown, soprattutto per gli americani, è atavica, mica ce l'hanno dal 1986. Al limite è Stephen King che riprendendo quella classica ossessione tutta made in Usa ha preso spunto per scrivere It. Ci sono migliaia di film americani ben precedenti al 1986 che parlano della paura dei clown, soprattutto legata al mondo dell'infanzia.
Concludo: il film del 1990 è diventata un cult nonostante fosse, sopratutto nella seconda parte, abbastanza scialbetto, pero' almeno era un horror. Questo di Muschetti in effetti è girato meglio, ci voleva anche poco, anche se fa morir dal ridere. Non ho visto questa seconda parte, ricordo solo che nella prima ogni qualvolta usciva il clown roteando come una trottola in sala partivano risate a cuor leggero. Altro che paura. In più altri dettagli non da poco, compresi gli omicidi dei ragazzini uno dietro l'altro in serie manco il tempo di abbozzare una qualsivoglia psicologia, senza contare che a fine anni Ottanta, quando si svolge l'azione del film, i neri non venivano più visti come negli anni Sessanta, qualcuno lo dica al buon Muschetti, giravano già i Public Enemy con gran successo, per dire. Per farla breve, una gran bella schifezza pure questa (e poi mamma mia il finale del primo, una roba che nemmeno la pubblicità del Mulino Bianco, con quelle luci sparate. Via via, da buttare).
Questo è il cuore del tuo intervento, ti piacciono i Public Enemy e non ti è piaciuto il film (o King). Possiamo parlare di fobie "ataviche" se guardiamo ai ragni, al buio, più tardi al fuoco. Meccanismi fobici legati al tessuto sociale (occidentale, in questo caso, esistono corrispettivi) vanno contestualizzate, ritualizzate, trasmesse con tradizione orale. esattamente quel che ha fatto King nel 1986. Neanche con la figura di clown triste si può parlare di archetipo, perlomeno non in senso stretto. Sicuramente la storia americana è troppo recente per parlare di fobie acquisite su base territoriale, folkways e mitologie di derivazione europea ed in minima parte native, sicuramente. Epopea e retorica, quella straborda. Grazie per il tuo intervento, un po' concitato ma si coglie il succo, l'animosità, legittima se piace altro. A me è piaciuto, lo riguarderò!
Ops, volevo dire nella prima riga è diventato.
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