Regia di Barry Jenkins vedi scheda film
Torna a Roma Barry Jenkins. Ma il ritorno sulle scene del regista Premio Oscar per Moonlight, presentato nel 2016 proprio al cospetto della città eterna, non sembra convincere molto. Lo dimostra il silenzio ancestrale in cui piomba la sala al termine della visione della pellicola. E non si può non tenere conto dei sospiri che, più volte, si diffondono tra gli addetti stampa, durante la proiezione.
E’ chiaro fin da subito che a farla da padrona saranno le inquadrature e la fotografia. Colori caldi e marcati intervengono a favore di una sceneggiatura in cui sembra essere privilegiato l’utilizzo del silenzio, come componente necessario per arricchire quei momenti di sceneggiatura privi di dialogo, in cui si prova a dare voce alle emozioni.
Nell’intento di voler necessariamente donare alla pellicola un tono poetico non dovuto, Jenkins sembra perdere di vista l’obiettivo primario, creando un racconto frammentario e non lineare in cui le scene sembrano ripetersi o finiscono per essere somiglianti, creando nello spettatore la reazione diametralmente opposta a quella immaginata: invece di emozionarli, di condurli nella profondità dei sentimenti, li investe di un senso di insofferenza che si genera dopo la prima mezz’ora di film e si protrae fino ai titoli di coda.
Ma la visione di famiglia che Jenkins racconta in modo così concreto, è però qualcosa che colpisce, per quanto sia anticonvenzionale. La reazione pacata e amorevole di una famiglia che apprende l’arrivo di un bambino lascia senz’altro sorpresi. Una nuova vita, è vista sempre come una benedizione e il dovere di una famiglia è quello di proteggerla contro la crudeltà della vita; e di insegnargli a non perdere il sorriso, nonostante tutto.
Se netto e deciso è il suo punto di vista sulla famiglia, non è da meno quello relativo al “corrotto sistema americano” che investe le vite di Tish e Fonny, dirottandone il normale svolgimento. Jenkins si schiera senza mezzi termini a favore dei diritti umani, con concetti lapidari e frasi ben definite, pur essendo chiaro che non ci sia in lui l’intento di voler creare nessuna polemica ma solo la voglia di ribadire un concetto a lui piuttosto caro.
Non manca quindi di personalità l’ultima pellicola del regista statunitense ma il metodo di racconto utilizzato risulta essere davvero pastoso e ridondante. La storia non è scorrevole e la sensazione è quella di assistere ad una manifestazione d’amore così profonda da non essere rappresentabile. E la “frustrazione” del regista traspare in tutte quelle scene in cui sembra dire molto e invece finisce per dire troppo poco.
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