Regia di Barry Jenkins vedi scheda film
Festa del cinema di Roma – Selezione ufficiale.
Resistere è una parola d’ordine da conservare con cura, perché se le ingiustizie fiaccano lo spirito, dare la soddisfazione della resa incondizionata raddoppia l’entità e l’amarezza della sconfitta. Ovviamente, ogni congiuntura ha i suoi contrappesi, ma se di mezzo ci sono le minoranze, allora è subito lapalissiano come servano il doppio delle forze per uscirne con un risultato quantomeno accettabile e la dignità al suo posto.
Per il suo primo film dopo l’indigestione di premi assegnati a Moonlight, Barry Jenkins continua a tenere alta la fiamma della resistenza, per quanto stavolta la stella polare che dovrebbe illuminare il selciato sia un’altra, ovvero quell’amore talmente indelebile da consentire di tirare avanti anche al cospetto di una corrente contraria, impetuosa e persistente.
Anni ’70, ad Harlem, quartiere di New York. Tish (Kiki Layne) e Fonny (Stephan James) si conoscono da sempre, ma solo alla soglia dei vent’anni si scoprono innamorati, tanto da progettare un futuro insieme.
Il loro sogno incappa in una pesante battuta d’arresto quando Fonny è arrestato per un reato inventato di sana pianta, mentre poco tempo dopo Tish scopre di essere incinta, notizia che lascia strascichi disuguali nelle loro famiglie.
Durante la gravidanza, con il sostegno di sua madre (Regina King), la ragazza continuerà a combattere per salvare il suo uomo e con lui la famiglia che verrà.
Dopo il sorprendente exploit agli Oscar di due anni fa, Barry Jenkins era atteso al varco e, a prescindere da ogni qualsivoglia ulteriore considerazione in merito, il pensare possa ottenere altrettanta fortuna assume i connotati di un miraggio.
Nelle prime battute, la pellicola traccia tre frangenti, distinti per quanto intersecati: l’amore più forte di ogni avversità tra Tish e Fonny, la querelle sul tema giudiziario, con solo i soliti noti a essere tutelati e le categorie più deboli triturate senza alcuna comprensione, e tempestosi contrasti familiari.
In principio, quest’ultimo spazio acquista le sembianze più movimentate e astiose, ma viene completamente relegato in un angolo, con un personaggio negativo che, dopo un sermone di rara acidità, finisce incredibilmente nel dimenticatoio. Inoltre, al contrario di quanto ipotizzabile, anche la parte relativa al sistema giustizia è spesso presente tra le righe per poi tornare a galla solo sporadicamente, peraltro con segmenti dipinti evitando accuratamente di togliere luce al resto.
Così, Se la strada potesse parlare, titolo esplicitato in testata al film con un acuto trafiletto di James Baldwin, non è per niente soppesato e riversa buona parte delle sue energie sulla componente sentimentale, sviscerata in modo popolare, lasciando sgorgare i flussi emotivi.
Un’azione eseguita ricorrendo a lunghi dialoghi, con la fotografia concentrata su volti e corpi, ripresi il più delle volte in spazi interni senza denotare alcuna ricerca estetica, e due interpreti protagonisti – Kiki Layne, esordiente in un lungometraggio, e Stephan James, protagonista in Race – Il colore della vittoria – che emanano empatia da tutti i pori, consci di essere dinnanzi all’occasione della vita.
Preso nella sua interezza, il film di Barry Jenkins non spicca mai il volo, nonostante ritrovare gli abusi di potere (vedasi una barbara azione di un poliziotto spiritato) e un sistema che mette i bastoni tra le ruote con totale noncuranza dei danni provocati, sia una leva esemplare per ottenere il beneplacito degli spettatori, che però finiscono completamente risucchiati dal passo lungo e trascinato della storia d’amore, descritta tra passato, presente e futuro, con un nocciolo circondato da tanta polpa, solo saltuariamente saporita.
Sbilanciato e piano, fino a ledere l’intensità dei messaggi che custodisce.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta