Regia di Xacio Baño vedi scheda film
Il trotto. Il ritmo di una vita primitiva che basta a se stessa.
Non è l’andatura più elegante, né la più selvaggia. È una camminata ritmica e veloce, disciplinata ma incerta, come di chi non ha un obiettivo da raggiungere, eppure sa di dover andare avanti. È il modo di procedere di un mondo di uomini e cavalli, cacciatori e prede, padroni e creature da addomesticare. Una famiglia galiziana, proprietaria di un allevamento equino, subisce il dramma di un incidente automobilistico dalle conseguenze fatali. L’anziana madre muore sul colpo, la figlia rimane ferita e traumatizzata. La vita di campagna, improvvisamente, mostra la sua stanchezza. Non c’è più voglia di correre a briglia sciolta, di essere un po’ eroi, un po’ ribelli, di respirare la libertà dello stato brado, delle battaglie primitive, degli inseguimenti, delle conquiste, degli amori ribelli. Il senso della fine si impossessa di quel mondo appartato, delle sue regole un po’ barbare, delle sue incantevoli schiavitù che, orgogliosamente, segnano la differenza con la civiltà. Ciò che resta è solo la patina rozza di una società patriarcale, in cui l’istinto è un triste sovrano, e non esiste vera allegria che possa lenire il dolore. Perfino la fuga è impossibile, in ossequio al principio che per sopravvivere occorre rimanere fedeli al gioco del più forte, alla logica della cattura come strumento di costruzione della società, di definizione dei ruoli, di conservazione dei legami. Per dipingere questo universo dai contorni ruvidi e grezzi, forse, è vano ogni sforzo dell’arte: basta infatti la mano leggera, ma decisa, con cui si impugna una matita dalla punta grossa. Il tratto deve risultare pregnante e impreciso, povero di dettagli ma ricco di ombre, di occhiaie, di sguardi appannati, di volti sfatti. Il disegno si deve poter rabbiosamente intrecciare per imitare il vortice di membra impegnate nella lotta corpo a corpo, in un groviglio in cui sia impossibile distinguere vincitori e vinti. L’unico criterio è il disorientamento primordiale che perpetua la guerra silente in cui trova impulso il ciclo vitale. Il suo motore è una cadenza atavica e ripetitiva, radicata nella terra d’origine, come quella lingua gallega che ci parla di tradizioni confinate in un microcosmo gelosamente chiuso in se stesso. L’orizzonte non si vede, rimane nascosto. Tutto è inquietante prossimità, compresi i grandi misteri dell’esistenza – la morte, l’amore – costretti, anch’essi, a dividersi uno spazio angusto ed affollato di spasmi inconsulti, come un mare di bestie ammassate. Il discorso si ferma a questa immagine, che ne congela la concitata frustrazione: la storia non va oltre, frenata dalle parole che non riescono a comunicare con l’esterno, che non trovano aiuto né rimedio, lasciando che chi viene da fuori si mantenga, per forza di cose, estraneo e reticente.
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