Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film
Rispetto a capolavori ormai "canonizzati" come "A bout de Soufflé", "Le mepris" o "Pierrot le fou", questo "Due o tre cose che so di lei" è decisamente meno conosciuto e ha avuto minore attenzione critica, ma come esemplare della poetica godardiana anni '60, che rimane il periodo più creativo del regista, non andrebbe troppo sottovalutato, perché può contare su un uso del linguaggio personalissimo ed originale e su una sostanza filosofica e sociologica che gli ha permesso di arrivare ai nostri giorni in una forma pressoché inalterata, dunque si tratta di un grande film. È un "film saggio" che appare come una sorta di collage dove Godard riflette su molte tematiche di stretta attualità, dalla politica alla guerra del Vietnam, dal ruolo invadente dei mass media al bisogno di conformarsi nella società consumistica: a livello visivo le immagini hanno un risalto spettacolare grazie ad una fotografia a colori di Raoul Coutard che gioca con grandissima maestria sugli accostamenti cromatici, ma risulta singolare anche la scelta di intervenire in numerosi momenti del film con una voce off, che in originale è quella stessa di Godard, che riflette sulla piega degli eventi francesi e occidentali all'indomani del 68 con un disincanto e una lucidità, ma anche con una passione civile che non sempre si ritrova nelle opere del maestro francese appena scomparso. Godard torna allo straniamento brechtiano, allo svelamento della finzione tramite Marina Vlady che viene presentata in quanto attrice, e che poi nel corso del film rifletterà ad alta voce sui meccanismi che regolano la coscienza e l'impegno del suo personaggio, Juliette Jeanson, in quanto membro attivo della comunità sociale, una moglie e madre di due bambini che lavora, ma che occasionalmente "arrotonda" prostituendosi per poter soddisfare alcuni bisogni a cui altrimenti dovrebbe rinunciare. Se si è prevenuti verso il linguaggio destrutturato e innovatore del maestro Nouvelle vague il film potrà facilmente annoiare, non essendoci una narrazione ma, spesso, l'accostamento di piccole scene e siparietti apparentemente slegati, ma se si è già frequentata la sua opera e si conoscono le basi teoriche che portarono alla nascita di un Nuovo cinema di fortissima influenza su tanti autori dei decenni successivi, allora "Due o tre cose che so di lei" apparirà come uno degli esiti più compatti, stilisticamente più omogeneo del Godard prima maniera. Marina Vlady è una presenza a suo modo affascinante e, più che recitare nel senso tradizionale, porta al film il dono di una ricerca umana ed emotiva che la rende toccante quando espone ragionamenti e considerazioni su argomenti disparati; sembra che durante le riprese Godard la chiese in moglie, ottenendo un rifiuto e guastando il feeling durante le riprese fino al non rivolgerle più la parola da parte del regista. Lo sfondo di una Parigi insolita e alle prese col rinnovamento urbanistico contribuisce al rilievo estetico di un film "difficile" e tuttavia necessario, che sarebbe bene ripassare da parte dei fan del regista in occasione della sua morte, come ho fatto io stesso, senza affatto pentirmene.
Voto 9/10
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