Regia di Patty Jenkins vedi scheda film
Dopo diversi rinvii anche Wonder Woman 1984 arriva al pubblico in formato digitale, in America dal 25 Dicembre scorso oltre che su HBO Max anche in alcuni cinema ben selezionati causa pandemia, mentre in Italia viene reso disponibile sia per l’acquisto che per il noleggio solo a partire dal 12 Febbraio, e c’era grande voglia da parte di tutti, a partire dalla stessa regista Patty Jenkins, anche sceneggiatrice insieme a Geoff Johns e Dave Callahan, di ripetere il successo della precedente pellIcola come anche dei moltissimi fans della Warner/DC Films di una nuova pellicola a risollevare le sorti, piuttosto altalenanti, del loro universo cinematografico.
Rimanendo in tema con quanto raccontato nel film della Jenkins: fai molta attenzione a ciò che desideri!
In realtà la premessa iniziale di Patty Jenkins è anche piuttosto coraggiosa (qualcuno direbbe anche suicida) andando controcorrente rispetto alla domanda di realismo, atmosfere grevi e dark proprie del fandome DC, e cercando invece di tornare ai primordi del genere modellando la sua ultima pellicola su tali premesse, in primis il Superman di Richard Donner (ma con un risultato finale che ricorda più i successivi sequel o, peggio ancora, la Supergirl di Jeannot Szwarc), spogliando il racconto di eccessive sovrastrutture, semplificando il racconto con una trama estremamente lineare e mettendo in campo un sentimentalismo privo di sfumature e talmente assoluto da risultare troppo poco credibile, e chiedendo allo spettatore uno sforzo di partecipazione e di sospensione dell’incredulità ad oggi piuttosto complicato.
Ne risulta quindi un classico film di supereroe d’antan, uno spettacolo prettamente visivo con una protagonista modello d’ispirazione per i giovani e una lezione la più edulcorata possibile da impartire al suo pubblico e nel quale l’ambientazione non è soltanto un semplice espediente narrativo ma vuole essere anche spunto e tema principale della pellicola stessa.
Il 1984 vuole rappresentare l’opulenza collettiva di una nazione in cui benessere, ambizione, edonismo e consumismo sfocia in un desiderio malsano di successo e non è quindi un caso che Patty Jenkins abbia scelto proprio gli anni’80 per ambientare una storia che parla di egoismo, avidità e potere.
Sulla carta un’idea vincente se ben vincolata narrativamente al miraggio dell’autoaffermazione e se tale ambientazione inizialmente suscita interesse presto perde però rilevanza rispetto a un tono volutamente troppo spensierato, ingenuo in certe scelte narrative (specie riguardo ai villains) e al registro scanzonato delle imprese della sua protagonista e a uno spunto preso in prestito di peso dalla leggenda della lampada di Aladino.
La vicenda avrebbe potuto svolgersi in qualsiasi epoca e in realtà avrebbe fatto ben poca differenza da cui l’impressione di un’idea buttata via non perché non adatta ma per l’incapacità degli autori nel riuscire a valorizzarla.
E non è certo l’unico errore commesso.
Purtroppo questa Wonder Woman, al di là delle prestazioni fisiche e di una nuova scintillante armatura, propone anche dinamiche deboli, idee anacronistiche in una struttura fin troppo semplificata, una sceneggiatura impacciata che finisce per inficiarne anche la recitazione dei suoi interpreti insieme a un’ostentazione dell’empowerment femminile tra predatori sessuali a forte rischio macchietta e la necessità incombente di un dibattito impegnativo alla moda e a misura di donna così come un finale talmente kitsch e buonista da risultare eccessivo anche in un film come questo.
Lo scontro ideologico tra verità e finzione supera di gran lunga le sequenze d’azione, per altro spesso di scarsa qualità e con una CGI posticcia (a dispetto di un budget di 200 milioni di dollari), quasi a voler omaggiare le imperfezioni del passato, così come risulta eccessiva anche la dipendenza ideologica/grammaticale con la retorica donneriana di quarant’anni fa, tra cui l’abbandonarsi al romanticismo dell’eroina che comparta la graduale perdita dei propri poteri come in Superman II (con conseguenze disastrose per il mondo intero), il volo romantico sull’aereo invisibile della coppia Diana/Trevor a voler ricordare quello tra Clark/Lois nel primo film ma anche il primo volo di WW come probabile (grossolano) omaggio sempre al primo Superman o, in mancanza di un Gene Hackman, la scelta di Pedro Pascal per incarnare una versione macchiettistica di Lex Luthor (ma che risulta più simile al Ross Webster di Robert Vaught in Superman III che a sua volta era già una versione ironica di Lex in una pellicola, datata‘83, che a suo modo già ironizzava sull’edonismo e sulla cupidigia propria di quegli anni).
Anche la stessa protagonista Gal Gadot, la cui presenza scenica come Wonder Woman è indiscutibile, in questa occasione appare quasi spenta, rivelando limiti che in precedenza erano invece riusciti a nascondere e arrivando, sotto certi aspetti, a voler omaggiare anche la protagonista della serie originale degli anni’70 (e in questo senso l’apparizione in una scena mid-credit della protagonista Linda Carter sembrerebbe qualcosa di più che un semplice cameo).
Perché uno dei problemi più lampanti del film è anche nella gestione dei personaggi.
E se Chris Pine risulta comunque affidabile, nonostante il suo ruolo sia ridotto a semplice interesse amoroso dell’eroina, in un ribaltamento di ruoli con i film con protagonisti eroi maschili, ed esponga la pellicola al suo peggior difetto, ovvero di essere soprattutto una commedia romantica su Diana e Steve, sono soprattutto i villains a soffrirne maggiormente.
Jenkins cerca infatti di raccontare le origini di due ben antagonisti finendo però per banalizzarli entrambi.
Il Maxwell Lord di Pedro Pascal, ambiguo imprenditore petrolifero e megalomane affarista Tv che identifica la felicità con il denaro e con la condiscendenza degli altri, nonostante tutte le buone intenzioni e l’impegno profuso non riesce mai ad avere lo spessore necessario, vittima di un personaggio parodistico e sempre sopra le righe che scivola nel cliché di un’infanzia di soprusi a giustificare il suo bisogno di rivalsa personale a qualsiasi costo.
Stesso discorso per la sua controparte femminile e del suo confronto tra la libera emancipazione femminile, dettata dalla sua superiorità morale e culturale, sul bieco mondo maschile (incarnata da Diana) e chi ne insegue invece l’approvazione, concedendosi alle sue stesse regole misogine e autoritarie (incarnata invece da Barbara Minerva).
Il personaggio di Cheetah, interpretata da Kristen Wiig e spesso fuori parte, avrebbe le carte in regola per interpretare la nemesi di WW, sfruttando le inclinazioni post #MeToo sovvertendole in chiave supereroistica e di evoluzione sociale della figura femminile anche più dello stesso personaggio di Diana, che in quanto personaggio semi-divino e figura mitologica irraggiungibile per una comune mortale è quasi estranea a certi riferimenti, ma è sfruttata solo come “brutto anatroccolo” che, trascurata e nell’ombra negli anni, si vendica grossolanamente degli altri e del mondo, in una deriva sempre più bizzarra ed eccessiva.
E indipendentemente dalla sua aderenza a determinati modelli, il film della Jenkins sembra davvero vecchio di (almeno) dieci anni, incapace di intercettare il presente ma anche inadeguata a livelli di effetti visivi e di struttura narrativa, svogliato e privo di personalità da rimanere perplessi sulla natura sbiadita e che segna a sorpresa (almeno per me) un nuovo standard negativo per questo genere di pellicole
VOTO: 4,5
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