Regia di Patty Jenkins vedi scheda film
The Wonder Move, o dell’incredibile, fantasmagorica, stupefacevole abilità di far peggio del passato.
La cosa che – extra-diegeticamente – si arriva a trovare colpevolmente più divertente di tutte è il profluvio di recensioni da “cuore infranto” di quanti – specie anglosassoni – avevano adorato, per i soliti oscuri ed insondabili motivi, il primo film ed ora si ritrovano a fare i conti con la realtà d’un “opera” che persino loro si devono risolvere a definire inclassificabile, lì lì sulla linea dell’inguardabile, nel suo essere un’inenarrabile pastrocchio.
Che si rasserenino, in ogni caso: pure l’originale del 2017 è fatica definirlo eccelso e – al di fuori della Hollywood preda dell’ormai consueto femminismo di facciata per far cassa – se n’erano accorti ai tempi se non proprio tutti, di certo tanti.
Se possibile, tuttavia, proprio questo fatto rende ancor più clamoroso il tonfo odierno: in quanto, chiaramente, l’esser riusciti a far persino peggio rispetto al già alquanto orrido predecessore si configura come un traguardo meritevole d’una sua propria categoria a parte del Guinness.
Ora, in tutta onestà, vien da chiedersi cosa diamine passi per la testa degli “executive” della Warner quando danno il via libera ad operazioni di tal risma: forse pensano seriamente di poter andare avanti in eterno a produrre pessimi film sperando che incassino soldi a palate a prescindere? Chissà, non è da escludere la loro geniale strategia di marketing consista proprio nello scommettere sulla prossima ventura auto-indotta lobotomia delle masse di analfabeti funzionali, di ritorno e – perché no? – visuali (d’altronde, una simile fiducia nelle “possibilità” dell’ingegno umano s’attaglia perfettamente ad una mega multinazionale senza scrupoli, nevvero?). Come si suol dire, tutto è possibile.
Per intanto rimane il fatto che quanti (forse pochi) scioccamente invece continuano a preferire la visione se non sempre e comunque di grandissimi film, quantomeno di decorosi prodotti di puro intrattenimento si debbono “rassegnare” ad evitare come la peste qualunque “opera” a firma DC.
A confermarlo per l’ennesima volta interviene proprio questo Wonder Woman 1984.
Difatti, il trascorrere d’un misero quarto d’ora di film è già (più che) sufficiente ad invogliare ad interrompere prontamente la sopraggiunta “agonia”, e ciò – nella modesta opinione di chi scrive – significa che il film si pone istantaneamente e “meritoriamente” ad un livello di mezzo tra Fantastici Quattro e Suicide Squad. Ovvero, tradotto, al livello d’un “completo abominio”.
Da subito si viene letteralmente sottoposti ad un drammatico “tour de force” di battute inascoltabili e impenitenti scivoloni camp che manco le serie supereroiche degli anni ‘60-’70 (non so se avete presente…), finché le roteate di pupille si fanno talmente frequenti e frenetiche da indurre quasi a crisi di nausea da giramenti di testa convulsi. E non si tratta affatto d’un esagerazione.
Per dare un’idea: la prima sequenza è completamente inutile e sostanzialmente slegata dal contesto (se si eccettua un banalissimo e quasi involontariamente ilare monologo in V.O. nelle intenzioni degli autori si vede grandemente significativo). A seguire a stretto giro abbiamo un’altra (e te pareva) futilissima sequenza, peraltro imperturbabilmente ambientata in un centro commerciale (perfetta epitome – va da sé – del decennio reaganiano), la quale – appunto – per “sensibilità” camp/kitsch si colloca tranquillamente tra i più alti risultati sinora conseguiti dal trash.
Fortunatamente (bontà loro) non viene portata avanti a lungo, ma assume i contorni d'un fosco presagio degli “orrori” audiovisivi cui si verrà sottoposti senza ritegno nelle successive due ore e passa di questo indigeribile polpettone para-sentimentale protratto oltre ogni limite d’umana sopportazione.
Giacché la ridicolaggine più sfacciata ce la si aspettava, ma WW84 riesce veramente nella straordinaria impresa di superare anche la più “rosea” delle aspettative al riguardo.
Chiunque sia così temerario e sprezzante del pericolo da andare oltre il prologo, ad attenderlo “a braccia aperte” troverà, in ordine sparso: la riproposizione d’una svenevole storia d’amore che faceva venire il latte alle ginocchia già nel precedente film; una coppia di antagonisti talmente imbarazzante ed infantile da ingenerare quasi una “malsana” voglia di Dragon Ball Z (senza dubbio incomparabilmente migliore in questo particolare “dipartimento”); una sceneggiatura capacissima di “regalare” insigni perle di scrittura del calibro di “voglio essere una predatrice alfa, del genere che il mondo non ha mai visto prima” senza la pur minima vergogna; una regia che definire piatta e anonima è da considerarsi cauta moderazione (si vedano le noiosissime scene d’azione); una colonna sonora “incolore”, “inaudibile” ed “impalpabile” (il pezzo forte – ovvero il galvanizzante tema principale – si sentirà sì e no un paio di volte; per il resto del tempo siamo nei dintorni dell’inconsistenza); una recitazione sotto naftalina o all’estremo opposto sotto adrenalina (se la protagonista si conferma del tutto inespressiva e monocorde [ad occhio più attenta a “posare” anziché “recitare”], Pascal e la Wiig sconfinano abbondantemente e tristemente nel ridicolo); una fotografia patinata da cartolina di Un posto al sole (oltreché in almeno un’occasione vicina al semi-amatoriale, dato che l’illuminazione cambia di continuo da uno stacco all’altro).
In aggiunta: la sedicente presa in giro di Trump risulta al dunque tagliente quanto un giocattolino della Bimbo; gli “intermezzi interminabili” tra una scena (per modo di dire) concitata e l’altra posseggono un potere soporifero superiore ad un’intera scatoletta di Valium; la CGI in taluni frangenti è semplicemente raccapricciante; e inoltre le insensatezze da strabuzzamento d’occhi nevrotico s’accumulano a ritmo vertiginoso (giusto per fare qualche esempio: si vedano la scena della “magica scomparsa” del jet; il momento in cui la protagonista si rende conto di saper volare (ma pensa te!); l’assurdo e pacchiano cambio di vestiario prima dello scontro “felino” prefinale [nel corso del quale – come notato da altri – sembra davvero d’esser capitati per sbaglio sul set di Cats]).
Se tutto ciò non bastasse, il sempre sedicente e sbandieratissimo "femminismo" si dimostra una volta in più un maldestro tentativo di marketing politicamente corretto privo d’alcuna sostanza, e per accorgersene basterebbe il tiremmolla sentimentale di cui sopra rinvangato – supponiamo – al solo fine di solleticare gli “istinti” delle più fissate tra le teenager. “Grazie” ad una simile sottotrama – per di più – Diana Prince alias Wonder Woman finisce per venir rappresentata alla stregua d’una porella tutta sola e abbandonata la quale da settant’anni si strugge nel ricordo del suo “unico vero amore” e da settant'anni si preserva casta e castigata che manco una suora di clausura (che ve ne pare in termini di “empowerment”, psicologia nonché “novità” per quanto concerne la resa delle donne al cinema?).
L’ambientazione anni ‘80 è poi assolutamente gratuita (ed evidentemente decisa all’unico scopo d’inserirsi nell’ormai scontatissimo, fiacco e fin irritante solco della nostalgia à la Stranger Things) e l’oltraggio subliminale dell’aver scelto proprio il 1984 imperdonabile a tal punto da far meditare la possibilità d’affibbiare un’insufficienza piena al film anche solo per questa ragione.
La regista ha sostenuto d’aver avuto l’opportunità di “fare tutto ciò che desiderava”: se è vero (e c’è più d’un motivo per dubitarne data la natura di blockbuster industriale del film) si spera, molto banalmente, non ne abbia mai più occasione (della serie “le speranze vane”…).
Che dire, in conclusione… Incredibile una tragedia filmica di questo tenore sia stata approvata a più riprese, una volta conclusasi la pre-produzione, terminate le riprese (ma qualche “reshoot” c’è stato), fatti i primi screenings. Fosse stata scritta da un esordiente, infatti, la cosiddetta “sceneggiatura” di questo cosiddetto “film” sarebbe certamente finita cestinata a velocità record, con tanto di gentile invito parallelo all’autore della medesima di dirigersi alla porta, ritornare per il mondo e andare a “scoprire” nuove scintillanti frontiere lavorative.
Insomma, si sarà capito, ma giova ribadirlo: WW84 è un disastro. Un disastro portentoso (nonché un tonfo poderoso).
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