Regia di François Truffaut vedi scheda film
Se la simbiosi libro/cinema è alla base del cinema di Truffaut, i suoi film sono cinema puro che si esprime libero con i suoi codici. La leggerezza è il suo stile e quanto più è sottile la maglia del tessuto tanto meglio lascia vedere in trasparenza.
All'inizio del XX secolo, il giovane francese Claude Roc (Jean-Pierre Leaud) di buona famiglia borghese e dotato di interessi letterari e prospettive nella critica d’arte, incontra la romantica artista inglese Anne Brown (Kika Markham), figlia di un’amica della madre, che lo invita in Galles per conoscere la sua amata sorella Muriel (Stacey Tendeter). Le due ragazze vivono con la madre in una splendida e severa casa di pietra sul mare, in mezzo a grandi radure incontaminate dove il tempo sembra essersi fermato.
Tra le due giovani donne e Claude nasce un forte legame, il soggiorno incantevole trascorre fra scherzi, giochi, passeggiate e soavi letture.
Claude è “le continent” per le due inglesi, un uomo per la prima volta nel loro gineceo di intatte vergini, un giovane che viene da un mondo lontano e tanto diverso dal loro.
Nasce, inesorabilmente, qualcosa che non è solo attrazione, è la scoperta dell’amore, dolce e perturbante, ed è quello fra Muriel e Claude. La graziosa Ann si fa da parte, nel gioco amoroso fra i tre tocca a lei perdere, anche se momentaneamente.
Quello che, secondo le regole codificate del tempo, sarebbe diventato un matrimonio, è in realtà l’inizio di una storia che si protrarrà per anni, un minuetto amoroso in cui ognuno sarà legato all’altro per sfuggirgli subito dopo.
Nel corso del racconto s’intrecciano eventi che fanno perno su Claude e vedono ruotare intorno a lui uomini e donne in una galleria di ritratti che Truffaut schizza con abilità impressionista, situazioni e destini s’incontrano e si allontanano perché, dice Muriel, “la vita è fatta di frammenti che non riescono a congiungersi”, e in tutto questo l’amore è una presenza centrale e ambigua, fatta di fisicità prorompente e intellettualismo, trasgressione e rinuncia, gioia e dolore e, soprattutto, apparente leggerezza.
“ Lasciamoci vivere, le etichette le mettiamo dopo” ne riassume lo spirito, il dramma c’è ma trasfigura in nostalgia gioiosa, malinconia appena avvertita che sfuma nello scorrere della vita.
Un film non facile, richiede una visione meditata, l’accoglienza negativa che lo caratterizzò all’uscita e lo ridusse da due ore e 12 minuti a poco più di un'ora e mezza da parte della distribuzione, può essere capita ma non giustificata.
Truffaut fa rivivere un mondo al passaggio del secolo, ne capta i segnali, i grandi cambiamenti ancora sotto traccia ma operanti nelle vite degli uomini, ne trascrive atmosfera e umori in immagini, rende visibile all’occhio quello che le pagine di un libro comunicano alla mente.
Le due inglesi è un film letterario, nasce da un libro e continuerà ad esistere come film/libro, qualcosa come gli uomini/libro della splendida chiusura di Fahrenheit 451.
La derivazione letteraria è esibita in ogni angolo del film.
“Se la bellezza di un'opera letteraria sta nella sua prosa, non c'è motivo di non far sentire questa prosa al cinema. ”
Ma se la simbiosi libro/cinema è alla base del cinema di Truffaut, i suoi film sono cinema puro che si esprime libero con i suoi codici.
La leggerezza è il suo stile e quanto più è sottile la maglia del tessuto tanto meglio lascia vedere in trasparenza.
Truffaut e Jean Gruault trassero la sceneggiatura dal romanzo di Henri Pierre Roché (l’autore di Jules e Jim) e dai suoi diari privati ??inediti, e quello che Truffaut disse alla stampa a commento del film, "Volevo spremere l'amore come un limone", va preso alla lettera.
Quel che resta a visione avvenuta è lo stesso sapore aspro dei racconti ambientati nella stessa epoca da Artur Schnitzler, visioni sgualcite di una belle époque parigina o viennese dove si consumano vite, amori, tradimenti e trasalimenti, malattie e morte sulle note smorzate di vecchi valzer o bagliori di crepuscolo en plein air.
Sullo sfondo di un mondo non ancora pronto, o forse non disposto, a percepire il proprio tramonto e ripiegato su sé stesso a cullare emozioni, intrecciare relazioni, vivere amori e leccarsi ferite, i tre protagonisti sembrano danzare un minuetto d’altri tempi costruendo la loro educazione sentimentale al passo dei tempi nuovi.
"Ho cercato di non fare un film sull'amore fisico", disse Truffaut, "ma un film fisico sull'amore".
Cosa intendeva dicendo questo?
L’andirivieni fra Claude, le due vergini inglesi e le amanti che si susseguono nel vortice del suo estro amatorio, rientra in cliché romanzeschi che Truffaut esibisce, annotando e filmando le pagine del libro e usando la sua voce fuori campo che legge pagine di Roché.
Vissuto in vario modo, sensuale e carnale, depurato e trascendentale, nulla sembra esistere al di fuori di esso, lo sfondo reale è un pretesto, le figure trascolorano come su una tela impressionista.
“Erano liberi e innamorati, tutti e due ne capivano l’incanto”
E dunque “Film fisico sull’amore” è una dichiarazione programmatica, e se ne avverte l’esattezza.
Il salto dalle pagine del libro allo schermo si risolve con naturalezza, la giovanile irruenza di Jules e Jim (1961) è diventata una maturità piena e consapevole, il marrone, l’ocra e il malva sono le sfumature scelte con il direttore della fotografia, Pedro Almendros, l’intento dichiarato fu "realizzare film in bianco e nero a colori".
La vita di Claude è un frutto maturo che lui gusta con avidità composta, intento e partecipe ma alieno da tensioni drammatiche.
Claude ci fa dimenticare la baldanza giovanile di Antoine Doinel, Jean Pierre Leaud è molto convincente nel dar vita ad un modello pienamente integrato in un’epoca di bon ton, baciamani e vita brillante, immerso nel clima di un tempo che fece dire a Winston Churchill:“Il vecchio mondo, nell'ora del suo tramonto, era bello a vedersi”.
Claude che si guarda allo specchio nel finale: "Mio Dio, stai iniziando a sembrare vecchio", sugella una storia che con i suoi amori in corso e i finali prevedibili, gli incontri e le separazioni, l’urgenza del presente e ricordo del passato, altro non è che vita vissuta, spiegazzata e ricomposta, affidata alle pagine di un libro, di un film, di un quadro o buttata nel fuoco del camino.
“Ho l’impressione che i personaggi del libro abbiano sofferto al mio posto” dice Claude al suo editore alla pubblicazione del suo primo libro, Jerome e Julian.
Parole che, confermando l’antico processo di identificazione dell’autore con i suoi personaggi, c’impongono di scartare la facile e riduttiva pista autobiografica, troppo angusta e fuorviante. La strada percorsa da Truffaut, a partire da Antoine Doinel, è quella di ogni artista alle prese con i suoi fantasmi, la sua vita e la sua mortalità.
Come i suoi personaggi tocca a noi, lettori/ spettatori, soffrire al suo posto.
www.paoladigiuseppe.it
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