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L'altra faccia dell'amore

Regia di Ken Russell vedi scheda film

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La recensione su L'altra faccia dell'amore

di (spopola) 1726792
8 stelle

Questo inusuale “contatto” con il personaggio e la storia così lontano dagli stereotipi delle biografie codificate propinateci da Hollywood, riesce ad aprire ampi squarci di conoscenza inedita anche dell’uomo, oltre che dell’artista, consentendoci nel contempo di penetrare nei più profondi meandri dei meccanismi creativi della composizione musicale

Considero davvero molto ingeneroso liquidare questo film come fa il Mereghetti sul suo dizionario (qualcuno prima o poi dovrà cercare di “illuminarmi” sui metri di giudizio utilizzati nelle valutazioni da questo critico e dal suo entourage, spesso incomprensibilmente sbilanciati in un senso o nell’altro, senza che a mio avviso sia possibile ricondurre la scelta a una precisa “scuola di pensiero” o a un giudizio estetico perfettamente uniforme) con un troppo semplicistico e lapidario: “Allora fu una rivelazione, oggi rischia di risultare una carnevalata”!!!!!!. Sappiamo tutti (e non da ora) che il cinema più di ogni altra forma “artistica” è strettamente legato all’epoca della “creazione dell’opera” perché si “nutre” degli “stimoli oggettivi del contesto”, segue gli “indirizzi” stilistici del momento, deve necessariamente confrontarsi con la “situazione storico-temporale” e le correnti (o “mode acclarate” che dir si voglia), e non può prescindere dal tener conto delle evoluzioni del linguaggio e delle “disponibilità tecniche” esistenti e disponibili, e che sono (non solo per questo ovviamente) pochissimi (solo i capolavori assoluti e incontestabili) i film che “resistono” indenni alle ferite del tempo che passa (e in questi casi anche pochi anni possono essere determinanti per modificare in parte la percezione fruitiva della visione e divaricare il giudizio). Io credo però che nessuno possa negare nemmeno oggi, l’assoluta carica eversiva della pellicola, il valore di “rottura” certamente adesso attenuato, ma sempre elevatissimo e che fu assolutamente dirompente al suo apparire in sala, di “The Music Lovers”. E chi come me ha l’età (non più verde) che gli ha consentito di vivere “in diretta” quell’esperienza esaltante, sa cosa intendo dire. L’approccio con questo regista avvenne per me quasi per caso agli inizi degli anni settanta (allora ero un frequentatore più assiduo del teatro che non del cinema). Fui attratto, più che dal nome del regista, di cui avevo sentito solo parlare marginalmente per la fama indotta, ma in Italia piuttosto labile, di alcune azzardate biografie di musicisti realizzate negli anni immediatamente precedenti, in Inghilterra per la BBC, o dai manifesti molto accattivanti, abbastanza insoliti per gli standard dell’epoca, da una certa ambiguità riscontrabile nell’adattamento italiano del titolo, accompagnata per altro dalla più perentoria “chiarezza” dei flani pubblicitari di supporto (alcuni dei quali liquidavano la questione con ammiccanti frasi del tipo: “La storia di un omosessuale che sposò una ninfomane”!!!!!). Che si parlasse di Tcajkovskij (e cioè di un musicista che amavo visceralmente, ma più per le ardite imprese operistiche, soprattutto l’Eugene Onieghin e La dama di Picche che non per le altrettanto coinvolgenti partiture da balletto – in primis il Lago dei Cigni – o per le sinfonie e i concerti per pianoforte e orchestra, repertorio già ampiamente saccheggiato “commercialmente parlando” per ricavare molti temi portanti dalla musica leggera del periodo, era al momento in qualche nodo ininfluente (l’interesse si indirizzava prevalentemente, come era inevitabile che fosse, nella direzione dello “scandalo annunciato”). Devo dire però che nonostante queste premesse e lo spirito prettamente voyeristico dell’avvicinamento, l’impatto risultò scioccante, non tanto per i temi, ma per i modi della rappresentazione: l’opera che stavo visionando era qualcosa di totalmente diverso non solo da quello che avevo potuto immaginare o supporre, ma da quanto avevo visto (e anche sentito) fino a quel momento, quasi una “critica visiva” delle creazioni del musicista, un qualcosa che apriva uno squarcio profondo nell’immaginario provocando sensazioni molto accentuate e stimolanti. Il nucleo della vicenda narrata, è rappresentata dalla tormentata, rimossa, latente omosessualità del compositore (fra ossessioni amorose, e ricorrenti - il colera – presagi di morte), ed è una rivisitazione particolarmente attenta ai risvolti - più che psicologici, psicoanalitici - del personaggio. Ed è proprio l’utilizzo della musica a risultare sorprendente, perché diventa parte integrante e imprescindibile delle immagini e della storia, non un semplice commento sonoro, ma qualcosa che assume la dimensione della “esemplificazione visibilmente tangibile del suono”, fra suggestioni oniriche e frequenti scarti di registro che rasentano il surrealismo (soluzioni narrative queste, che diventeranno poi la cifra stilistica riconoscitiva del regista in quasi tutto il suo percorso successivo, anche se con risultati alterni e non sempre così pregnanti). Russell, per “raccontare” ed esasperare da par suo la “tragicità assoluta” della vita del musicista (le successive operazioni ripetute, con intenti analogamente dissacratori e provocatori, con altri due grandi del romanticismo come Mahler e List, approderanno a esiti complessivamente più discontinui e meno emozionali) aveva utilizzato non solo le attinenze e i rimandi biografici dell’ufficialità o gli incontestabili riferimenti di rilevanza storica, ma anche e soprattutto un romanzo della Drinken Bowen. Era l’approccio alla materia a risultare insolito e inusuale e a destare conseguentemente meraviglia e entusiasmo, l’inconsueto amalgama di fatti assolutamente attendibili e storicamente esatti, con altri più marginali o comunque più difficilmente controllabili a rendere infuocato il procedimento e “scottante” il risultato, gli arditi e qualche volta parossistici movimenti della macchina da presa ad accentuare il senso di compiaciuto stupore suscitato dall’insieme. Era l’utilizzo della colonna sonora, che riusciva a collegare con precisione assoluta e senza sbavature i risvolti psicologi del personaggio alla struttura delle partiture da lui composte ad essere sorprendente. Abituati agli stereotipi delle biografie codificate propinateci da Hollywood, questo inusuale “contatto” con il personaggio e la storia, riusciva ad aprire ampi squarci di conoscenza inedita anche dell’uomo, oltre che dell’artista, consentendoci nel contempo di penetrare nei più profondi meandri dei meccanismi creativi della composizione musicale. Per la prima volta (o almeno era così che si avvertiva la cosa) era proprio la musica che diventava la componente essenziale e funzionale dell’azione, non più semplice commento quindi, ma interpretazione. Certo, le immagini e le tesi erano ardite, a volte stravaganti ed eccessive, ma questo accumulo di barocchismo visivo e contenutistico, aumentava esponenzialmente il fascino di quest’opera estrema e significativa fino a travolgere anima e cervello. Se si presta particolare attenzione all’aspetto strettamente musicale, si può individuare ancora oggi nel film, nonostante il tempo trascorso e il conseguente inevitabile affievolimento della novità “visionaria” e trasgressiva, una struttura sinfonica delle sequenze, dall’ouverture iniziale al successivo sviluppo dei temi che spesso ritornano e si inseguono, fino al crescendo finale, orchestrato sulle magnifiche note della Patetica che commentano in maniera assolutamente imprescindibile l’altrettanto inarrivabile sequenza visiva riservata alle disturbanti immagini di Nina in manicomio dopo il “delirio” sessuale che l’ha travolta a seguito del fallimento del suo rapporto con l’artista. E le riprese nel vagone letto, effettuate con la macchina a mano fra musica e sussulti, luci ed ombre, in un parossistico e convulso succedersi di piani ravvicinati e di movimenti repentini, che stigmatizzano in maniera esemplare e si sposano alla perfezione con lo stile allucinatorio ed esacerbato di tutto il contesto, raggiungendo una efficacia complessiva poche altre volte registrata con analoga potenza, possono essere paragonate alla “simulazione di un amplesso”, quasi un’estasi sessuale definitamene compiuta. Insomma l’uscita dalla proiezione fu esaltata ed entusiastica, consapevoli (almeno io avvertivo questo “privilegio”) di aver assistito alla nascita di un nuovo importante, personalissimo autore, e poco importa se poi non tutte le premesse furono confermate con analogo vigore dal percorso successivo, rimanendo però intatta la visionarietà provocatrice che intende infrangere schemi e tabù. Russell aveva davvero “osato” fare a pezzi le regole acclarate e ormai il dado era stato tratto e risultava impossibile tornare indietro, il percorso era stato “tracciato2 indelebile per gli anni a venire: non più una semplice ricostruzione agiografica come d’abitudine, ma uno spiazzamento sensoriale derivante dal coraggio di “raccontare” una vita e la sua musica con la forza dirompente della verità, magari “scomoda” ma reale. Un personaggio pubblico e famoso presentato a tutto tondo e senza paraventi moralistici quindi, reale e sublime, con le sue pulsioni sessuali controverse, i suoi eccessi, le sue cadute fra “genio e sregolatezza”, senza timori falsamente referenziali di infangarne la memoria…. Splendidi poi gli interpreti, soprattutto la Jackson, che inizierà proprio da qui la sua sfolgorante ascesa nel firmamento delle “grandi attrici di razza”, ma anche il “belloccio” e spesso (fino a quel momento) incolore Richard Chamberlain, molto intenso ed appropriato, in simbiosi perfetta anche di immagine, con il personaggio interpretato e il biondo, baffuto e intrigante Chirstopher Gable (che ritroveremo poi più compiutamente esibito quale protagonista assoluto de “Il Boy friend”) nel difficile ruolo del conte Ĉiluvskij, ambiguo e controverso “amore impossibile”. Rivediamolo adesso allora, senza pregiudizi o preconcetti questo “The Music Lovers” e lasciamoci trasportare dalle emozioni senza paura di essere decadenti e demodè: certo, molta acqua è passata sotto i ponti a rendere meno “sconvolgente” l’approccio, il linguaggio innovativo dell’epoca è diventato scontato e ripetitivo, sfruttato e riprodotto anche in opere di dubbia derivazione da personaggi meno talentosi, il percorso del regista stesso è risultato spesso arrancante, ridimensionandone un poco la portata e il valore, ma questo che cosa vuol dire? Che per eccesso di spirito critico “revisionista” dobbiamo adesso per essere in linea e alla moda disconoscere il valore di un’opera che è qualcosa di più di un semplice “bel film?” No, io a questo gioco al massacro non ci sto: anche i miei entusiasmi si sono affievoliti in questi anni, ma non così tanto da decretare adesso, per eccesso di zelo, il pollice verso nei confronti di un’opera che rimane importante e decisiva, rilevante e necessaria!!!!” (Dedicato a Charlus Jakson)

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