Regia di Elio Petri vedi scheda film
Certo bisogna farne di strada
da una ginnastica d'obbedienza
fino ad un gesto molto più umano
che ti dia il senso della violenza
però bisogna farne altrettanta
per diventare così coglioni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni…
Sostenuto da un geniale meccanismo grottesco che opera “al contrario” rispetto a un consueto thriller d’indagine (in questo caso, per “provare la propria colpevolezza”, ma al contempo arrivare a dimostrare la “propria insospettabilità”), che per il gusto dell’assurdo come ampiamente notato deve probabilmente qualcosa a Kafka (non per niente citato sul finale), Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, “primo film italiano sulla polizia”, rappresenta non soltanto il miglior film di Petri ma una lucida ancorché (volutamente) esasperata – fin quasi “paradossale” – requisitoria sul potere.
Sul potere repressivo e prepotente, annichilente, irrefrenabile e cruento, caratterizzato dalla peculiare e perversa tendenza a preservare (o quantomeno tentare di preservare) se stesso, il che si esplica naturalmente nell’attitudine propria dei suoi rappresentanti (a qualunque livello) a celarne le derive più criminose e criminogene (vedasi alla voce apparato di controllo, antidemocratico, formalmente “illegale” e “non ufficialmente riconosciuto” [ai giorni nostri, risuona niente alla memoria?]).
Un’accorata invettiva in sostanza contro un potere ritenuto per se stesso ingiusto e coercitivo, anche se perfino in qualche misura “inesorabilmente impotente: non sono [difatti] soltanto sbirri, gli uomini del potere, ma anche patetici pagliacci” (Di Gianmatteo), che “sfogano nell’autorità le loro repressioni sessuali e di classe” (Fofi).
Ciò è mirabilmente sintetizzato proprio nella figura del protagonista, il quale non riesce ad accettare il fatto che Augusta ad un certo punto decida di sottrarsi al proprio ruolo all’interno della loro relazione facendosi sempre più "provocatrice", tosto minando alle fondamenta la di lui ostentata sicurezza basata anche sulla supposta superiorità (financo intellettiva) sull’altro sesso: si sfogherà dunque dando prova di inaudita ferocia ad inizio film e poi soprattutto lungo tutta la durata divertendosi perversamente ad esercitare arbitrariamente la propria autorità.
Il “direttore” è personaggio tronfio, crudele e meschino emblematico d’una società in precario equilibrio (forse già in sfacelo) parte d’un mondo grigio, marcio e corrotto, ove al fondo nulla cambia e forse mai cambierà.
Anche perché, con buona probabilità (come si premurerà di ricordarci qualche anno dopo uno dei più grandi cantautori nostrani nelle note conclusive di quel che è forse ad oggi il suo disco più controverso1), il tentativo di sostituire una qualunque sistema con un altro alternativo o semplicemente differente, è destinato solo a produrre un nuovo dominio d’una classe su un’altra, d’una parte sulle altre, perché il potere non è mai buono e non può in alcun modo lasciare incorrotti.
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto vuole farsene chiara conferma, ma anche sconsolata riprova di come, non importa cosa accada, in un modo o nell’altro il “giusto equilibrio” finisca sempre per essere ristabilito; qualunque cambiamento è cambiamento di superficie, non di sostanza, e in definitiva il potere riesce quasi sempre a perpetuare se stesso, compatto, intoccabile.
E così, oggi, a ben cinquant’anni di distanza dall’uscita nelle sale, il film mantiene un’innegabile attualità e porta a chiedersi, con formula forse lievemente retorica, di fronte alla fossilizzazione e al grigiore sempre più opprimente d’una società come quella italiana (ma non solo), se in definitiva serva ancora a qualcosa operare per un cambiamento, lottare per un cambiamento, sperare in un cambiamento. Perché, stando le cose come stanno, ci si crea sempre più l’idea che no, non ne valga la pena. Ogni cambiamento è solo di superficie; le cose in realtà non cambiano, le persone men che meno…
Ognuno riuscirà comunque a rinvenire all’interno della narrazione i più diversi significati, tale è la stratificazione e la complessità degli spunti offerti (anche se magari talvolta solo accennati).
E molti finiranno certo per ricordare anche a lunga distanza dalla visione alcune delle geniali e taglienti citazioni che il film regala a profusione (proverbiale la chiusa al discorso d’insediamento: "Il popolo è minorenne, la città è malata. Ad altri spetta il compito di curare e educare. A noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!"; ma diverse altre inappellabili “sentenze” vengono pronunciate dal protagonista, tra le quali fulminea e en tranchant: “La rivoluzione è come la sifilide, ce l'hanno nel sangue").
Insomma, anche a livello tecnico il film eccelle (regia, sceneggiatura, colonna sonora, recitazione), e si conferma una tappa imprescindibile dell’itinerario cinematografico italiano, talvolta tenuta ingiustamente in minor conto rispetto ad altre più celebrate opere, che non ha perso nulla in termini di potenza e capacità di suscitare riflessione e analisi.
“Esagerato”, perfetto e indimenticabile l’accompagnamento musicale ad opera di Morricone e – è proprio il caso di dirlo – eccezionale la prova di Volonté, veramente impressionante per mimetismo, capacità di calarsi nella parte (d’altro canto, non è che ci fossero molti dubbi, al riguardo).
1 Ovviamente, De André col suo “Storia di un impiegato” (1973) [P.S.: le strofe citate provengono per l’appunto dalla traccia conclusiva dell’album, “Nella mia ora di libertà”]
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta