Regia di Massimiliano Bruno vedi scheda film
Ci deve essere puzza di bruciato nella commedia nostrana se capita sempre più spesso di assistere a viaggi nel tempo come quello proposto dal nuovo lungometraggio di Massimiliano Bruno. Così, dopo quello settecentesco organizzato da Genovesi per il ritorno dei “suoi” moschettieri a resuscitare dall'oblio sono la famigerata banda della Magliana e soprattutto i mitici anni ottanta, quelli che oltre alle scorribande da western metropolitano dei suddetti malavitosi furono teatro dell’inaspettato trionfo degli uomini di Enzo Bearzot ai mondiali di calcio spagnoli. A dare fuoco alle polveri è lo scontento di tre buoni a nulla - Sebastiano, Moreno e Giuseppe (Alessandro Gassmann, Marco Giallini e Gianmarco Tognazzi) -, il cui tentativo di dare una scossa alla mediocrità delle loro vite si traduce nel salto temporale capace di catapultarli nel bel mezzo dell’estate dell’ottantadue, quella delle bandiere tricolore sventolate nelle strade della capitale per festeggiare le vittorie della nostra nazionale (succedeva lo stesso pure negli anni 90 di “Notte magiche”) come pure della costituzione da parte di Enrico De Pedis e dei suoi soci del fantomatico tesoro nascosto nella cripta di una delle chiese più famose di Roma e frutto delle loro tragiche imprese. Sono questi elementi a costruire la griglia entro cui si muove la sceneggiatura, pronta a intrecciare le vicissitudine dei poveri diavoli - pronti a trarre vantaggio dalla situazione scommettendo sui risultati delle partite in corso di svolgimento - con quelle di Renatino e soci, a proprio modo cultori delle vicende calcistiche e dunque intenzionati a ricavare qualcosa dalla visione televisiva dei vari match. Tanto basta infatti a Bruno per innescare una sorta di commedia noir in cui tra una puntata e l’altra i nostri rimangono invischiati nella balorda esistenza dei manigoldi e in quella della pupa del boss,sciantosa e tarantiniana dark lady a cui presta volto e figura un’efficace Ilenia Pastorelli.
Detto dei riferimenti presenti fin dal titolo al “Non ci resta che piangere” dei benamati Troisi e Benigni, a cui il film fa riferimento nell’’escamotage del cortocircuito spazio temporale e nelle conseguenze dei suoi paradossi così come nei toni farseschi della tragedia di “uomini ridicoli”, “Non ci resta che il crimine” risolve da par suo i costi e la complessità della ricostruzione ambientale, lasciata più all’insieme dei dettagli (costumi, taglio di capelli, jubox di hit musicali dell’epoca) che alla grandeur visiva (sostituita dalla prevalenza di scene girate in interno e da una buona dose di scene notturne), concentrandosi soprattutto su dialoghi e personaggi. Nel primo caso cercando di far convivere tic e battute con la volontà di riscrivere la storia di quegli anni e dunque di farne il vettore di leggerezza e buon umore senza rinunciare a raccontare a proprio modo una stagione della nostra Storia, nell’altro, scommettendo sulla possibilità di utilizzare in chiave comica un soggetto reale e drammatico come quello rappresentato da una delle figure più importanti della criminalità capitolina, facendo di De Pedis (Edoardo Leo) e company dei corpi tutti da ridere. Un progetto ambizioso (come d’altronde lo erano quelli di Virzi e Genovesi) e comunque delicato poiché alla pari di serie come “Gomorra” che nel filmare le gesta dei loro villain finiscono per accentuarne i tratti più romantici e romanzeschi (con quello che ne consegue in termini di emulazione) “Non ci resta che il crimine” doveva riuscire a farli brillare mantenendone inalterata la valenza negativa. In questo Bruno e i suoi sceneggiatori sono bravi, mettendoli alla berlina anche quando (Tarantino docet) si tratta di impugnare una pistola e sparare a bruciapelo al malcapitato di turno.
Parte della riuscita del film deriva dal paesaggio caricaturale e dalle maschere che fanno da sfondo alla vicenda, le cui espressioni deformate e grottesche riescono a essere il giusto contraltare all’innocua goffagine dei tre amici. Qualche dubbio invece è dato dalla consistenza dell’impianto generale poiché nell’intento (ipotetico) di riuscire a fare ciò che non era riuscito con “Lo chiamavano Jeeg Robot”, ovvero di trasformare il film nella puntata pilota di una saga dedicata alle avventure Guaglianone e Menotti - autori del soggetto e pure della sceneggiatura insieme a Bruno e Andrea Bassi - sembrano più interessati a mettere le basi di un possibile futuro narrativo piuttosto che adeguare i contenuti ai tempi di una storia auto conclusiva. In quella di “Non ci resta che il crimine” tutto sembra essere rimandato alla prossima puntata (elusiva in questo senso è la sequenza finale), anche le idee, che nel film in questione vengono sempre meno tanto più ci si allontana dall’espediente iniziale.
(ondacinema.it)
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