Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Un mulo sbocciato tardivamente: “I think you're just a late bloomer.”
“The Mule” è l’ennesima tappa (stupe)facente parte della lunga cavalcata quasi ininterrotta [uniche eccezioni a questo minimo comun denominatore sono costituite da Gran Torino - scritto anch’esso (in attesa di Cry Macho, sempre di pura finzione) da Nick Schenk, e non è un caso - ed HereAfter] che Clint Eastwood da tre lustri sta effettuando lungo le diramazioni della highway statunitense a forma di crocevia che porta il nome di Based on a True Story.
Al direttore della fotografia Yves Bélanger, proveniente da “Lawrence AnyWays” e “Dallas Buyers Club”, e al montatore Joel Cox (sodale da una vita con l’autore di “Mystic River” e “Million Dollar Baby”, vale a dire dalla metà anni ‘70 di “the Outlaw Josey Wales” e “the Gauntlet”), andrebbe fatto un monumento alla proiezione assonometrica militare del quadro ripreso/esplorato e costruito/architettato dalla MdP nell’atto di dipingere la fotografia di una fotografia della realtà [il primo arrivo del malandato pick-up di fronte alla saracinesca del “gommista” - sventagliata di 90° vs Dx e poi di 180° vs Sx - è di una edwardiana (nel senso di Hopper e Ruscha) bellezza lancinante] e alla melodia del timbro/ritmo armonico che scandisce il tempo dei “Cut!” [l’improvvisazione provata e studiata del buona la prima e l’assolut’assenza di qualsivoglia ornamentazione superflua: in quel nullus rappresentato dal fotogramma nero a dividere uno stacco dall’altro ci s(t)iamo dentro tutti noi: un vero e proprio specchio di tenebra illuminante], ma è la coadiuvante organizzazione generale della regia eastwoodiana ad amalgamarne lo stile veicolando un portato di ulteriore, ma non accessorio, significante significato, se non etico, almeno (a)morale.
Al Clint Eastwood di nuovo magnifico attore…
-{il film inizia nel 2005, e il protagonista è già in modalità Montgomery Burns’ style*, poi compie un balzo di una dozzina d’anni, e a quel punto ti aspetti come minimo di veder comparire ISSO (o direttamente ISSA) in gran forma, e invece no, eccolo lì, è sempre lui, (My Name Is) Earl Stone, un affascinante pezzo di merda gnucco** come, per l’appunto, la pietra (non ancora tombale), cui l’oltre-anzianità non ha portato giudizio, ma solo ribadente conferma e stratificato assestamento di gnuccaggine/gnucchitudine** fint’ottusa [che siano carichi di DROKAH (o di armi, o più semplicemente di soldi provenienti da quei traffici, ch'è poi la stessa cosa) lo sa bene sin dalla prima sacca trasportata in viaggio di piacere, ché quella smorfia sul viso all’apertura del borsone durante il terzo tragitto è dovuta solamente alla più grande quantità] , non altro che quello, e a conti fatti, tirate le somme, non c’è empatia da parte dello spettatore (e il film da questo PdV e sotto questo aspetto non lavora né contro, “ovviamente”, né, però, con altrettanta onestà, a favore), non ve n’è traccia alcuna, e il dato di fatto che la famiglia lo perdoni, soprattutto dopo la scoperta dell’impensabile e quasi indicibile, è un fattore del tutto comprensibile: ma Earl Stone non è il marito, padre e nonno dello spettatore, che è libero di giudicare senza l’interferenza dell’affetto e, anzi, al contrario - perché la sceneggiatura di Nick Schenk [costruita sull’ossatura di “the Sinaloa Cartel’s 90-Year-Old Drug Mule”, l’articolo (e un "pezzo" giornalistico sarà alla base anche di "Richard Jewell", il film successivo del regista di "UnForgiven") scritto per il New York Times nel 2014 da Sam Dolnick, basato sulle “imprese” di Leo Sharp (1924-2016), veterano della WW2, qui trasformato in reduce della Guerra di Corea] non solo non si risparmia in scomode verità, ma ne elenca a profusione con puntuale precisione -, dell’acredine, del disamore, dell’astio, della disaffezione, del rancore}-
...per sé stesso [dopo il già menzionato - “testamentario” (ah-ah!) & al contempo seminale - “Gran Torino”] e per altri (“Trouble with the Curve”) si affianca una grandiosa, ulcerosamente esposta, Dianne Wiest, mentre la linea di discendenza (diretta/diegetica e indiretta/extradiegetica) dell’albero genealogico continua con le buone ed ottime prove di Alison Eastwood e Taissa Farmiga. Come controcanto al mundo civilizado, a fare da tratto d’unione fra il mondo civile e quello incivile del “cartello”, c’è Ignacio Serricchio, mentre compare poco ma lascia il segno quella meravigliosa faccia da El Lazo di Clifton Collins, e merita una nota a parte, infine, Andy Garcia, qui probabilmente in una delle migliori interpretazioni, se non “la”, senza contare gli Ocean’s* soderberghiani, dagli anni ‘80 di Ashby, De Palma e Scott. Dall’altra parte della barricata, invece, a triangolarsi con quelle due realtà, c’è il mondo militare rappresentato, con discrete-buon-ottime prestazioni, da Bradley Cooper, Michael Peña e Lawrence Fishburne.
* Genitivo Sassone
** Localismo Settentrionale
E poi le musiche di Arturo Sandoval, compositore e musicista jazz (tromba e pianoforte) di origine cubana in diserzione/defezione, con l’aiuto del mentore Dizzy Gillespie, verso gli U.S.A. (la cui vita fu trasposta dall’artigiano Joseph Sargent per HBO proprio con Andy Garcia nei suoi panni in “For Love or Country”), che un anno dopo tornerà a lavorare con il regista di “Bird” e “Piano Blues” per il già citato “Richard Jewell”.
E sui titoli di coda Toby Keith con "Don't Let the Old Man In"...
Un mulo sbocciato tardivamente: “I think you're just a late bloomer.”
* * * * (¼)
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Bonus Track: Get Behind the Mule!
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