Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Sono passati dieci anni (e quasi altrettanti film) dall’ultima apparizione di Clint Eastwood attore in un suo lavoro da regista, da quel Gran Torino in cui, attraverso il rabbioso Walt Kowalski, sembrava dare l’addio alle scene. Ma quello che appariva come il suo testamento da attore era solo l’epilogo di una tipologia di personaggi, i vendicatori solitari, ormai allo stremo per salute e dignità perdute, che trovavano nel confronto armato l’ultimo bagliore di una rivalsa impossibile. La loro apologia si è trasferita nei successivi ritratti di persone reali (J. Edgar, Invictus, Jersey Boys) e di eroi per caso (American Sniper, Sully, Ore 15.17, Assalto al treno), biografie di persone comuni costrette a diventare eccezionali da circostanze fortuite perché capaci di trasformare l’addestramento ricevuto in qualità salvifica, il mestiere in attributo.
Ed è ancora una storia vera che racconta Eastwood in The Mule, il reclutamento di un anziano fioraio da parte di un cartello di narcotrafficanti per il trasbordo di ingenti partite di droga attraverso gli Stati Uniti. L’elemento di cronaca permette la costruzione di un fondale realistico per il ritratto, però, di un antieroe, ben lontano dagli ultimi personaggi scelti dal regista nei suoi film più recenti. Se quelle erano storie di eroi quotidiani, persone normali che agiscono in modo straordinario per una catena di eventi, il protagonista di The Mule non ha reali attenuanti; anzi, il regista insiste sul tratteggio degli aspetti sgradevoli e criticabili dell’uomo, lo ritrae senza alcuna concessione alla simpatia per sottolinearne, invece, l’anaffettività patologica, la reiterata incapacità comunicativa con i parenti, l’esibizionismo narcisistico con gli estranei, la spudorata vanità sessuale, l’assenza di rettitudine sociale. Non si tratta più di un modello né di un personaggio positivo, forse di una vittima delle circostanze che traduce in opportunità l’assenza di futuro che si trova a dover affrontare al tramonto della vita. In questo senso, Earl Stone diventa una variazione sarcastica sul tema degli ultimi film di Eastwood, con un uomo che diventa bravissimo nel suo nuovo lavoro, eccezionale proprio per la riconosciuta e apparente normalità che lo rendono invisibile sulle strade d’America e perfetto per il traffico di stupefacenti.
Solo l’aspetto e la dignità di Eastwood attore offrono un riparo alle critiche palesi che il personaggio suscita, proteggendolo con la propria aura e un corpo, una volta scultoreo e ormai affranto dall’età, indebolito sino ad essere quasi indifeso. In questo bozzolo di simpatia e di compartecipazione, Earl Stone rimane protetto dalle conseguenze delle proprie azioni, la valutazione morale non diventa determinante e non mina la percezione dello spettatore, spostando il personaggio in un limbo di indulgenza che permette di comprenderne il dolore e di non giudicarne severamente le azioni. A questo si aggiunge il tono ironico con cui il regista accompagna le gesta del protagonista, le notazioni su quella strana famiglia allargata di temibili narcotrafficanti che, come gli spettatori, si inteneriscono per l’arzillo vecchietto creando una divertita e inedita cameratesca complicità che appiana le rughe dell’antipatia e del disagio.
Inoltre anche il fioraio è una vittima del suo tempo, di condizioni economiche e di innovazioni tecnologiche che spazzano via intere porzioni della periferia dell’economia, di banche esose che riscuotono intere vite svuotandole di senso nel sottrarre loro proprietà e ricordi. L’azione (spostata in avanti rispetto alla cronaca) copre gli anni della recente crisi, dal 2005 al 2015, e mette sotto accusa non solo Obama ma l’intera politica americana, indifferente al destino del singolo e, nella sommatoria degli individui, di un’intera collettività. Ma se lo sguardo del regista è da sempre sensibile a una prospettiva progressista e contempla ogni strato sociale privilegiando i sommersi, e sebbene il film sia anche una palese accusa al consumismo e al sistema capitalistico che riduce in povertà pure gli onesti lavoratori, il repubblicano indefesso Eastwood accusa senza criticare, mette in luce non mostrando opzioni differenti o ipotizzando che una diversa struttura lavorativa sia possibile. La risposta del protagonista è da perfetto individualista che trova una soluzione personale senza ricorrere ad alcun aiuto esterno o sostegno pubblico, senza rivendicazione o proposta alternativa. Con il crollo economico che divora i piccoli commercianti e un sistema statale che non offre riparo o sostegno, Eastwood è comunque troppo orgoglioso per non inseguire la dignità di un uomo ferito e solo e che da solo, per scelta e necessità, trova una soluzione in un’economia parallela, che esiste negli interstizi e nelle pecche di quel sistema di cui di cui fa inesorabilmente parte, per trarne, così, esclusivo, egoistico, sebbene momentaneo, vantaggio. La sua non è la rivalsa ma una forma di ingrata resilienza, non la resistenza ma il tentativo di ingannare il mondo e le sue avversità e, insieme, ingannare anche la vita che rimane.
Il film è girato con la pacatezza del rigore per l’essenziale e privilegia le ellissi in cui il tempo si insinua e si perde, i raccordi in cui sembra dilatarsi. Quasi a simboleggiare quegli anni sprecati e persi del protagonista, dimenticati eo sfuggiti a pensare ad altro, i parenti perduti e gli amori inquieti: le inquadrature di collegamento e i salti cronologici finiscono per prevalere, costruendo un film fatto di elementi apparentemente secondari che costringono la narrazione in brevi e secchi interventi, la riduce a piccoli episodi significativi.
In fondo, Il Corriere è costruito sulla facile retorica della necessità di dare importanza alla famiglia e alle persone più prossime, senza inseguire le illusioni di un appagamento momentaneo, come quei boccioli a cui Stone ha dedicato la vita, che ha coltivato per vederli crescere e fiorire a scapito dei veri affetti, repressi sino alla loro negazione per una vanità perseguita sino all’ossessione. Ma Eastwood sfugge alla banalità e alla sentenziosità con la secchezza del racconto, costruito proprio sulle mancanze, su pezzetti superflui e su spezzoni di una vita che si è negata la felicità cercando brevi momenti di effimero splendore, sbocciati nel nulla. Ed è su quei fiori che si apre e chiude il film, sull’esaltazione di una bellezza emozionante perché transitoria e da cogliere in quell’istante, con il tempo e la vita espansi a eterno e imperituro presente all’inizio, poi lavorati e accuditi nel finale come residua bellezza di un appagamento tardivo ma completo.
Il vecchio fioraio, giovanile nelle intenzioni ma debole nel fisico e debilitato dalle condizioni economiche, nel corso del film diventa un narciso pentito, un “late bloomer”, come lo definisce, non senza ironico sarcasmo, la figlia (che è anche la vera figlia di Eastwood, Alison, con tutte le implicazioni autobiografiche di una simile scelta di cast) la quale, finalmente, gli rivolge la parola dopo una dimostrazione di affetto e di rispetto da parte di quell’uomo che è anche suo padre. Leon è un fiore sbocciato tardivo, già appassito o, almeno, appannato negli occhi e nel fisico, ma non nel voler vivere ancora alcuni momenti importanti, soltanto diversi da quelli a cui aveva dato valore prima, perché legati all’intimità e alla famiglia, a sentimenti e ad amori che si rivelano vivi dentro ad una vitalità ancora nervosa ma che ha scoperto errata e male indirizzata. Il film propone ironicamente un parallelo tra il fioraio e l’agente della Dea che insegue lui, in quanto corriere, per sgominare il cartello, ma si dimentica della famiglia e, in un breve dialogo che diventa sincera confessione, imprime una specularità tra figure analoghe, moralmente ed emotivamente affini, benché avversarie sul piano legale. Ed entrambi, al di là della comunione di sofferenze, sfruttano con evidente cinismo una situazione compromessa per forzarla a proprio vantaggio: l’anziano proponendosi come corriere; l’agente reclutando col ricatto un infiltrato, minacciandolo con una deleteria falsa denuncia per costringerlo a collaborare.
The Mule è, come sempre, un film dolente, un melò fuori tempo massimo per il protagonista e, insieme, un ultimo baluginio di dignità che ha il sapore del riscatto e della rivalsa, ma che è soltanto una scorciatoia verso un’impasse da cui sfugge solo in extremis. Al processoStone sceglie la condanna e la verità e non le attenuanti, la sincerità come ultimo atto, in parallelo alla richiesta e offerta di affetto della famiglia.
Come nell’ultima sua interpretazione autodiretta in Gran Torino, Eastwood incarna ancora una volta un uomo alla fine della corsa, sconfitto dalla vita e da scelte sbagliate, abbandonato dalla società e da un mondo che non capisce e a cui, a suo modo, si ribella accettando le conseguenze di un’insubordinazione che è solo personale, che non è mai rivoluzione ma rivalsa significativa di un singolo, un ultimo assolo da virtuoso. In Gran Torino la macchina del titolo era un pezzo d’antiquariato mantenuto in vita con la cura del motore e della carrozzeria, sempre ferma in garage per non affrontare strade divenute irriconoscibili; The Mule è, invece, un road movie con il motore sempre acceso di una automobile nuova di zecca (dopo che il vecchio furgone lo ha abbandonato), in cui il tragitto si fa circolare e ripetuto da pendolare del cartello, sino a chiarirsi in una deviazione finale e fondamentale, per poi interrompersi con un blocco stradale della Dea prima di una tragedia annunciata.
Nei dieci anni intercorsi Clint è diventato e appare gracile e avvizzito, incurvato, rimpicciolito, dalla pelle trasparente mentre interpreta un’ultima uscita di scena. Nell’inquadratura finale, dopo aver curato un altro fiore, si alza e se ne va fuori campo, con un’andatura che, da dinoccolata, è divenuta difficoltosa, ma con il sorriso di chi ha afferrato il senso delle cose e della vita. Poi il film si spegne, sulla malinconia della musica.
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