Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
C’è,nel film più politicamente scorretto di Clint,un ironico spiazzamento che a volte fa sorridere per i toni da commedia,altre commuove quando la storia scende nelle viscere profonde del rimpianto incolmabile,c’è la vita di un uomo che spesso ha sbagliato e ha saputo riconoscerlo,ma,invincibile eroe del quotidiano,si è dato un’altra possibilità.
Prima del film più politicamente scorretto di Clint Eastwood val la pena di parlare di un fiore, poi capiremo meglio il film.
E’ l’ Hemerocallis, apre e chiude il film, e così leggiamo da un sito benemerito di storie botaniche:
“Non è sempre detto che le denominazioni latine delle piante siano volutamente astruse: talvolta basta sapere un po’ di latino o di greco per capire tutto. Le Hemerocallis, per esempio, si chiamano così perché i loro fiori sono sì belli (kalòs), ma durano un solo giorno (hemeros), dopo di che appassiscono. Una simile premessa potrebbe scoraggiare qualunque giardiniere, e invece non bisogna abbattersi, perché queste piante – che oltretutto sono molto rustiche e assolutamente resistenti alle malattie – sono delle perenni longeve e pressoché indistruttibili, capaci di produrre fiori in continuazione, a volte anche per molte settimane o addirittura per mesi. Ogni mattina, nel nostro consueto giro d’ispezione in giardino, troveremo un fascio di fiori nuovi e freschissimi, che sono comparsi durante la notte per rimpiazzare quelli del giorno prima. Un’autentica fabbrica di fiori, che sotto molti aspetti compete senza timori con i gigli, confermando l’esistenza di una fratellanza fisiologica, tanto che nei paesi anglosassoni le H. sono chiamate ‘daylily’, cioè ‘gigli di un giorno’. Se proprio si vuole fare un confronto diretto, per quanto un po’ spicciolo, possiamo affermare che se i gigli sono dotati di uno stile quasi ineguagliabile e spesso di un profumo gradevolissimo, le H. non sono meno eleganti e in ogni caso fioriscono assai più a lungo. Ma le contese in giardino non dovrebbero mai avvenire: coltiviamoli entrambi e sia finita lì. “ (https://www.giardini.biz/piante/erbacee/hemerocallis/)
Come l’Hemerocallis Clint rinasce ogni volta, sempre più bianco e grigio, incurvato e mai spezzato dalla vita, con le sue lacerazioni e le redenzioni in atto, dietro la macchina da presa e, dopo Gran Torino, anche davanti.
Questa volta si è incarnato in un personaggio che sembra il suo clone, Leo Earl Sharp Sr. (noto anche come El Tata, nato il 7 maggio 1924 e morto il 12 dicembre 2016), veterano della seconda guerra mondiale, orticoltore di fama mondiale e corriere della droga per un ramo del cartello messicano di Sinaloa a partire da quella fase della vita definita “terza età” (forse a ricordare che il tre è il numero perfetto).
Dopo dieci anni di viaggi sul fido pick-up e importanti carichi di droga consegnata ai suoi destinatari, il più vecchio drug-mulo del mondo fu preso nel 2011 da Jeff Moore, agente della DEA (Drug Enforcement Administration).
Leo scontò un anno in carcere. Gli altri due comminati dal tribunale li passò ai domiciliari, troppo vecchio e malandato per restare in cella.
Nel 2014 Sam Dolnick, sul New York Times Magazine, raccontò il caso in un articolo dal titolo “The Sinaloa Cartels’ 90-Year-Old Drug Mule”.
Di Leo sappiamo solo questo dato di nuda cronaca, il resto ce lo racconta l’inimitabile Clint, e la storia diventa leggenda.
La leggenda di un fiore.
Metafora della vita umana, come l’Hemerocallis il film contiene genesi, sviluppo e tramonto di una storia nella sua forma effimera, unica, conclusa, definitiva e perciò pronta a chiudersi, ma con ancora tanto da raccontare, fino all’ultimo respiro.
Fedele all’immagine ispiratrice, Clint conserva del fiore la leggerezza e, se fosse possibile, dallo schermo ne arriverebbe anche il profumo.
Snello, elegante, solo un po’ rallentato nei movimenti dai suoi 88 anni, attraversa lo schermo come il ringhioso Kowalski di Gran Torino, ma quel malumore acido si è dissolto, adesso ha solo una partita da giocare, ed è la più difficile, anzi impossibile da vincere, quella col tempo.
Ma lui la gioca lo stesso, come quel coloratissimo fiore che regala tutta la sua bellezza ogni mattina.
Con Nick Schenk (sceneggiatore di Gran Torino) Clint ritaglia su sé stesso un personaggio che è la summa di tutti i suoi personaggi, con il valore aggiunto della sua identità di uomo.
Per parlare di Leo/ Earl Stone il regista parte dal 2005, una sequenza breve con una vita frenetica fra lavoro, orto aziendale e fiere dove raccoglie premi e successi.
La famiglia quasi non esiste, dimentica perfino di accompagnare all’altare la figlia (Alison Eastwood) nel giorno del suo matrimonio.
Stacco brusco, sono passati dodici anni, moglie (Dianne Wiest) e figlia hanno chiuso con lui, gli resta la nipotina che lo pensa sempre come il caro nonno ma non lo vede mai, la crisi ha colpito duro, l’azienda è pignorata, i dipendenti licenziati, i fiori non sono un bene di prima necessità.
Ora è tempo di raccogliere i risultati di una vita, e sono molto magri.
Gli resta il pick-up con cui ha percorso 41 Stati su 50 senza mai una multa e poco altro caricato sul retro.
Alle sue spalle ormai c’è tutto: lavoro, famiglia, fallimenti, successi, amici, donne, felicità e dolore.
C’è anche tanto rimorso per quello che non ha saputo o voluto dare.
Moglie figlia e nipote, le tre età della vita ora intorno a lui sono un bilancio di cui non essere orgogliosi.
Ma Earl Stone, alias Leo Sharp, alias Clint Eastwood non si lascia andare alla depressione premortuaria che tanto riempie studi di strizzacervelli e farmacie, omeopatiche e non.
Leo/Earl si dà una possibilità, con i soldi della droga aiuterà la famiglia, senza dare spiegazioni che, del resto, nessuno gli chiede, e domande non ne fa neppure lui, la vita va avanti come capita e quei soldi lasciati dagli spacciatori nel suo cruscotto salvano lui e i suoi cari dalla miseria.
Sappiamo che Leo, nella sua filosofica e sublime incoscienza, disse alla Corte: “Quel che è fatto è fatto”, estrema sintesi di una scelta di vita discutibile quanto vogliamo, ma non è una favola a sfondo morale la vita di nessuno, e con tutte le sue brutture può anche essere divertente, a volte bella, certo stupefacente e anche capace di redenzione, se necessario.
E stupefacente è la scelta finale (finale? speriamo di no) di Clint: fingersi Leo/Earl, canticchiare alla guida canzoni di Sinatra mentre porta droga su e giù per le infinite e desolate roads del vecchio e spelacchiato West, prendere in giro spacciatori e poliziotti (stupendo il cameo dell’autista di colore fermato dalla Polizia che, atterrito, anticipa lui quello che in genere dicono, urlando e magari anche bastonando, i poliziotti ai malcapitati!), godere come un ragazzotto ingenuo delle grazie procaci di brasiliane e simili alla corte del boss (Andy Garcia ottimo nei panni del padrino gaudente e simpatico), mostrare l’agente della DEA (un Bradley Cooper che si appresta a diventare suo erede, a partire dallo sguardo azzurro e buono), che ha giurato di incastrare il “mulo” e chi lo paga, senza il “muso duro “ dei detectives classici, anzi addirittura commosso nel riconoscere in lui, arrestato, il simpatico vecchietto con cui aveva scambiato due chiacchiere al bar.
C’è un ribaltamento di tabù e convenzioni che gioca rimpiattino con il pubblico, un ironico spiazzamento che a volte fa sorridere per i toni da commedia, altre commuove quando la storia scende nelle viscere profonde del rimpianto incolmabile, c’è la vita di un uomo che spesso ha sbagliato e ha saputo riconoscerlo, ma, invincibile eroe del quotidiano, si è dato un’altra possibilità.
Senza minimizzare né assolversi mai, spargendo unguento sulle piaghe ma lasciandole bene in vista, Clint continua a dirci che la vita è una sfida e le mani nella merda vanno messe.
Corriere della droga? Anche, meglio di una campagna anti-proibizionista, l’America impresentabile dei nostri tempi è tutta lì e il vecchio libertario-repubblicano sa come colpire nel segno.
In uno dei brani della colonna sonora, Don’t Let the Old Man In, Toby Keith si chiede “quanto ti sentiresti vecchio se non conoscessi la tua età?”.
Siamo convinti che Clint, la sua età, l’abbia proprio dimenticata, e bene così.
www.paoladigiuseppe.it
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