Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Se The Old Man and The Gun sarà ricordato per essere stato l’ultimo film interpretato da Robert Redford, Il corriere – The Mule è destinato a passare agli annali per il motivo opposto, considerato che il ritorno davanti alla macchina da presa di Clint Eastwood lo riconsegna a una carriera d’attore che lo stesso aveva deciso di concludere dopo le riprese di Gran Torino. A riportarlo in scena è la storia di Earl Stone, come il film di Lowry, ispirata a un articolo del New York Times dedicato alle vicissitudini di uomo diventato corriere della droga (di un cartello messicano) per rimediare alle conseguenze di un tracollo economico. Alle prese con una vicenda contaminata da dinamiche e situazioni tipiche di certo cinema thriller, genere ripreso quando si tratta di raccontare le pericolose frequentazioni del protagonista così come gli imprevisti di volta in volta presenti lungo la strada che lo separano dal luogo della consegna, Il corriere è innanzitutto la rappresentazione di un’esistenza divisa tra consuntivo personale e voglia di vivere, ai quali l’autore fa corrispondere sul piano narrativo da una parte il travagliato rapporto di Earl con l’ex moglie e la figlia (da sempre uno dei temi centrali della sua poetica), dall’altra i numerosi momenti di un privato allietato da passatempi e trastulli degni di un’aitante giovanotto.
Baluardo di un mondo – e di un cinema – in via d’estinzione, Eastwood fa ancora una volta del suo universo morale la misura di ogni giudizio, riuscendo come sempre a bilanciare una certa avversione nei confronti della modernità (qui segnalata dai continui rimbrotti nei confronti di internet e del ricorso alla telefonia) con un umanesimo che pur non cancellando differenze e ostilità serve a renderle più accettabili. Conscio di non avere più niente da dimostrare, Eastwood torna sul grande schermo all’insegna di una libertà che si tocca con mano, tanto nello spirito ludico e nella mancanza di filtri del protagonista, pronto a scherzare o a farsi scherno di temi capitali della società americana quali razzismo e omofobia, ma anche a sorvolare una questione importante come quella della droga (non a caso tornata alla ribalta nel cinema e sui giornali), considerata solo nella sua funzione di espediente narrativo, quanto nel modo di girare, segnato dall’utilizzo di una luce più limpida e meno contrastata rispetto quella impressa nelle immagini di Tom Stern, da cui il regista si separa dopo lunga collaborazione (sostituito dall’Yves Belanger di Lawrence Anyways e Dallas Buyers Club), e supportato da una cinepresa mai così mobile nel tradurre in movimenti di macchina l’irrequietezza dell’ottuagenario signore.
Che poi attraverso Earl Stone il regista altro non faccia che mettere in scena se stesso e il proprio personaggio, in una sovrapposizione tra elementi autobiografici (tratti dalle dicerie vere o presunte del suo conservatorismo politico) e suggestioni che ruotano attorno al suo immaginario cinematografi (per esempio il Western inteso come spazio fisico e genere filmico), è un altro paio di maniche. Altrove minimale, il regista questa volta non riesce a contenere il carisma e la personalità regalata al suo alter ego, destinati, per forza di cose, a fagocitare quelle di coloro che gli stanno attorno, facendo dei personaggi parte di un’aneddotica funzionale allo sviluppo della narrazione. Così come non si può non segnalare, in termini di scrittura e drammaturgia, la meccanicità del cambio di passo che, nelle battute conclusive, riporta il film alle atmosfere più tipiche dell’ultimo Eastwood, quelle in cui il mea culpa del protagonista diventa lo spunto per una ripensamento generale sul senso della vita. In America il film è piaciuto di più al pubblico che alla critica, confermando che uno come Eastwood non passa mai di moda.
(pubblicata su taxidrivers.it)
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