Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Un anno fa, di questi tempi, non riuscivo a decidere se “The 15:17 to Paris” potesse essere il film più brutto di Eastwood. Optai per un ex aequo con “Hereafter”.
Oggi invece di dubbi non ce n’è: “The Mule” è il suo film più sbagliato.
L’apprezzabile novità è che per la prima volta, quantomeno sotto propria direzione, Clint si mette nei panni di un coglione. Apprezzabile perchè alla fine di una prolifica e gloriosa carriera è cosa non da tutti. E non un coglione senile eh, troppo facile. Un coglione vero, uno che era coglione anche da giovane. Un coglione vecchio, per intenderci, non un vecchio coglione. Apprezzabile, dicevo. E invece no: perché Eastwood prende il personaggio di Earl Stone, ignorante, razzista, dissoluto, pessimo padre, lo indossa e decide di farcelo piacere, finendo col dare forma e carattere ad uno strano ibrido di American Dad e Mister Magoo. I vari tentativi di raggiungere empatia sono goffi, fuori luogo, incoerenti e fanno la fine dei gessetti troppo consumati che sfuggono via e lasciano l’unghia a stridere sulla lavagna. L’ultima inquadratura è emblematica: il primo piano sul viso di Earl, rilassato e finalmente a suo agio, a volerci trasferire le medesime sensazioni... il problema è che il processo empatico con uno che senza mai alcuno scrupolo o pentimento trasborda centinaia di chili di droga per il cartello messicano (OT: sì, la droga è una di quelle poche cose per misurare le quali gli Americani adottano il sistema metrico decimale... un’altra è la dilatazione vaginale delle partorienti, boh...) richiede impegno e non lo crei alla chetichella con un paio di shot e qualche battutina. La sceneggiatura risente pesantemente dei tentativi falliti, si ripete monocorde numerando senza motivo i vari viaggi, presenta alcune situazioni al limite della tolleranza (quella in cui il poliziotto del Missouri, durissimo, cazzuto sciovinista, si lascia irretire senza spiegazione e se ne va con due barilotti di popcorn, è da orticaria) e cigola nei siparietti familiari (dove c’è ribalta anche per Alison Eastwood, un cognome e poco più, tradita, porella, dall’ereditarietà, che le ha portato in dono solo l’espressione senza cappello), atti a contenere sfacciate ridde di insopportabili spieghini (l’accrescitivo non se lo meritano). Tutt’intorno a Earl un esercito di oranghi assortiti: dovrebbero essere Messicani ma di umano hanno solo l’aspetto. Rappresentandoli come primati, Clint va giù di marchetta all’amico Donald, sottovalutando che non lo metti in piedi coi primati un cartello internazionale.
A capo degli oranghi ci piazza Andy Garcia, che, visibilmente soddisfatto che ogni tanto gli facciano fare l’ispanico, fa il piacione e, fin quando può, gigioneggia amabilmente. C’è anche Bradley Cooper e la sua faccia è sempre una garanzia. Nel senso che non cambia mai: strafatto di mescalina, mentre fucila bambini iracheni, affetto da bipolarismo, agente della DEA... quella è. L’Antonio Barozzi a stelle e strisce.
Chiosa finale ammorbidente: è pur sempre Eastwood, uno di quelli che la mdp ti fa scordare che la stia usando, anche quando affardellato da script ponderosi ed opprimenti. E se, ultraottuagenario, ogni tre o quattro film rispolvera classe ed eleganza e tira fuori preziosità come “Sully”, in Clint we’ll always trust. A tra un anno.
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