Regia di William Wyler vedi scheda film
La carriera di W. Wyler è ormai consolidata e riconosciuta anche dagli Oscar come uno dei migliori registi, non solo di Hollywood, e con L'ereditiera, tratto da un testo teatrale di Ruth e Augustus Goetz a sua volta adattamento del romanzo Washington Square di Henry James, conferma la sua concezione di cinema.
Sul dizionario Mereghetti si legge, con mio grande stupore, che la regia è una delle meno riuscite di Wyler, riconoscendo l'esito positivo del film praticamente solo alle eccezionali interpretazioni del cast. Secondo il mio modesto parere ingiustamente perché Wyler dà un saggio di mimetizzazione estrema, è un silente e delicatissimo burattinaio dal tocco classico: il suo compito non si limita ad una direzione precisa degli attori e ad una pura illustrazione teatrale fine a se stessa o strumentale, ma proprio il candore distaccato del suo sguardo sceglie con minuzia le disposizioni della mdp nello spazio "scenico", nelle zone della casa-prigione mentale, la disposizione e la mobilità dei personaggi e dei punti di vista (fisici e concettuali) e tradisce anche, alla fine, con Morris che grida dietro la porta, lo sberleffo e la soddisfazione quasi sadica della vendetta e la tragica consapevolezza della sbocciata Catherine, in questa vicenda di travaglio amoroso, di dolore dell'odio, di fulminea e agghiacciante presa di coscienza, una maturazione improvvisa che dalla ingenuità e dalla timidezza diventa decisione, freddezza, coscienza della soggiacente natura ferina camuffata da rispettabilità e compostezza alto-borghese, circondate dal lusso dei mobili, delle tappezzerie, del vestiario (Catherine dalla relativa modestia dell'abbigliamento e dell'acconciatura quotidiana passa all'ostentazione matronale - ma da zitella - dell'eleganza).
Wyler quindi non fa teatro filmato in senso stretto, ma immerge la psicologia nell'immagine e nei movimenti calibrati e sommessamente eloquenti, nonché nella predominanza degli interni rispetto ai pochi esterni e dei quattro attori principali rispetto alla fugace moltitudine della buona società.
O. de Havilland tratteggia con trasformismo incredibile il ribaltamento di Catherine Sloper, da timida e scialba crisalide, ma amabile nonostante le sue qualità limitate, a Erinni che però non perde la sua compostezza, anzi la consolida nelle strettorie del suo ruolo sociale e nella solitudine. M. Clift impersona l'ipocrisia e la falsità cronica di Morris Townsend con assoluto candore, un uomo che sfrutta la propria bellezza per sfruttare il prossimo; lui che dice di essere cambiato è l'unico ad essere rimasto copia di se stesso. R. Richardson è il dottor Austin Sloper, padre autoritario ma non dispotico, da cui trapelano i dubbi e i dolori sotto l'apparente crudeltà. M. Hopkins è invece la zia Lavinia, stupida ma buona eppure anche ligia alla convenzione, al compromesso pur di vedere la nipote sposata.
Quattro Oscar per la de Havilland, John Meehan (scenografia), Aaron Copland (musica) e Edith Head (costumi).
La colonna sonora è niente meno che di Aaron Copland (1900-1990), tra i maggiori autori statunitensi, il quale commenta con discrezione ma anche con consapevolezza per mezzo di una musica che appunto da una parte è trama connettiva dell'azione e collante delle scene, dall'altra evidenzia le sensazioni dei personaggi per mezzo di brevi interventi percepibili ma non invadenti. Nonostante l'Oscar però, non si può nemmeno annoverare tra le sue migliori composizioni.
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