Regia di Maurizio Ponzi vedi scheda film
O tu vai in Perù
o tu sposti la Chiesa
o tu vinci al Totocalcio
C’è più Toscana in questo film che in tutte le corrive parabole di Leonardo Pieraccioni, in quelle storie al miele e zucchero che virano verso il carino e lasciano in un cono d’ombra quell’ineffabile senso di morte (o della fine) che accompagna le giornate di una terra bellissima (già ben visibile nell’illustrissimo precedente di Amici miei).
Facile guardare Madonna che silenzio c’è stasera con il senno di poi, rileggerlo alla luce degli avvenimenti personali che hanno trascinato Francesco Nuti in un tunnel senza uscite. La verità è che, imbrigliato dalla regia di Maurizio Ponzi, che pure si metteva al servizio della sua incontenibile verve attoriale, il comico toscano forse soltanto al suo esordio riuscì a definire una poetica sincera e scevra di riferimenti egotici, una filosofia che ne faceva il fratellino nordico di Massimo Troisi: stesse incertezze, stessa malinconia divorante, stesse domande ripetute alla ricerca della inesistente risposta, linguaggi naturalmente diversi, aderenti senza indugi all’ambiente/casa/madre/matrigna, all’esistenzialismo dettato dai confini geografici, alla necessità di evadere quantomeno con il pensiero.
La giornata di un vagabondo per le vie di Prato, un personaggio un po’ Chaplin, un po’ clown circense, un po’ Cioni Mario, molto, e tout court,perdente senza rassegnazione alla sconfitta, un Pierrot lunare di genialità inconsapevole e poesia della strada che sciacqua in Arno panni lessicali sporchissimi, riavendone indietro un corredo di invenzioni che trasformano la surrealtà in meraviglia, lo stupore in bellezza trattenuta, la tristezza in acquiescenza ironica e vitalissima. Perché il primissimo Francesco Nuti, sin dai pionieristici tempi dei Giancattivi, era questo: un malincomico (secondo la definizione che all’epoca fu coniata per molti dei nuovi talenti post commedia all’italiana), un ragazzo che non voleva farsi uomo, un osservatore attentissimo delle contraddizioni sociali ma anche della non centralità del proprio ombelico, il passeggiatore senza meta, l’amico di tutti e di nessuno, il mattatore comico ma anche la spalla che piange sulle spalle altrui ma spesso offre la propria (i surreali personaggi che popolano le panchine, gli autobus, gli spazi aperti di Madonna…, il Magnifico ed i suoi sogni del Perù, il bambino con cui interagire alla perfezione, da cui anzi imparare l’arte dell’accondiscendenza alla vita, la capacità di sfidare una morte anche dell’anima).
Nei dialoghi che sconfinano nel nonsense (gli scambi di vedute con il barista interpretato da Novello Novelli sul valore da attribuire al silenzio ed al tacere sono in tal senso paradigmatici), nella imprevista irruzione di un misero successo (il Festival dei Dllettanti e la memorabile e celeberrima Puppe a pera), in quella sveglia destinata a suonare sine die e sine die annunciare un giorno uguale ai precedenti ed ai futuri, sta la cifra stilistica di Madonna che silenzio c’è stasera, impregnata di sofferenza ma rifiutante il masochismo. Una risata seppellirà la alienazione del lavoro industriale (la lotta con il telaio, intermezzo gioiosamente e consapevolmente luddista), un sospiro farà piazza pulita delle pene d’amore (la scena ricalcata da Il laureato), perché la vita è fatta di incontri, attese, le giornate si inventeranno sempre uno scopo (sia quello, di difficile realizzazione, dello scoprire tracce paterne, sia invece quello di sbarcare il lunario pur non volendolo). Un Nuti acerbo e sincero come non mai, corazzato contro improvvide manie di grandezza, un comico che sapeva inventare un linguaggio, costringerlo alle sue paturnie, rielaborarlo e farlo volare al di là dell’Arno, conferendogli universalità. La sua prova migliore, sia detto con un velo di tristezza.
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