Regia di Victor Nuñez vedi scheda film
Non è un gran film, L’oro di Ulisse. Appartiene alla nobile quanto modesta schiera dei film indipendenti americani alla Sundance (ma all’epoca Redford non ancora se lo inventava), con mezzi ristretti ma che comunque sono certamente superiori a quelli di un film indipendente europeo, una storia di provincia (che poi è sempre ambientata in uno stato poco in voga degli Stati Uniti) e un qualche motivo attorno a cui ruota l’intera pellicola. In questo caso il motivo si chiama Peter Fonda, che quasi commuove per come ricorda il padre, il caro Henry: giunto nei pressi dei sessant’anni, Fonda trova in Ulisse il ruolo della vita, un apicoltore vedovo e riservato, alle prese con i guai lasciati dal figlio in galera e dalla nuora tossica.
Dramma profondo, qua e là tragico (la crisi d’astinenza della nuora, il sequestro delle nipoti), ad un certo punto diventa un mezzo thriller che non crede mai alle sue ambizioni, si lascia andare lungo cento minuti abbastanza prolissi e mai veramente coinvolgenti. Finale lieto, perché la speranza è sempre l’ultima a morire e, in film del genere, non si trova mai il coraggio spudorato di dire di no alle esigenze del cuore. Il film si regge sulla performance del suo necessario protagonista, che dà l’acqua della vita ad una storia altrimenti abbastanza trascurabile, così fiero e così fragile nei suoi occhi che hanno visto troppe cose. La sua prima ed unica nomination all’Oscar, ma soprattutto la definitiva consacrazione recitativa di un attore finissimo e misterioso.
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