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Jaulas

Regia di Nicolás Pacheco vedi scheda film

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La recensione su Jaulas

di OGM
6 stelle

Una storia in fuga. Che non sa dove andare. Però cerca, disperatamente, di comunicarci la sua angoscia.

Gabbie. Ce ne sono di ogni misura e colore. Anche grandi ed invisibili. Questa storia è fatta di urla e di silenzi, lanciati a stento attraverso le sbarre. È rabbia che deborda dai margini sfilacciati, quella che si fa largo a fatica fra le trame di una vita dai contorni rozzi, ruvidi per mancanza di pace. Da qualche parte, in una zona rurale della Spagna, un manipolo di umanità si perde nel proprio disperato attaccamento alla terra, alla tradizione della famiglia, agli equilibri di un potere che il tempo vorrebbe travolgere. Progresso e libertà sono gli antagonisti del legnoso radicamento dei valori patriarcali, sono coraggiosi combattenti anche quando seguono vie sbagliate, praticando l’inganno e il sotterfugio, o persino quando vestono gli imbarazzanti panni della follia.  Gli uccelli che cinguettano fanno da contrappunto beffardo e romantico ad una vicenda di donne infelici che scappano, di uomini aguzzini che falliscono, di giovani che non riescono a trovare la strada. Le antiche regole del mondo  inciampano goffamente nell’anacronismo di tante esistenze troppo rivolte al passato, in cui la voglia di qualcosa di nuovo deve fare i conti con la minaccia del castigo, della vendetta, della distruzione. Forse non si può raccontare altrimenti, questa vicenda così stridente con le logiche della modernità, se non accettando di assecondare, nello stile, il profilo tagliente delle schegge impazzite, che attraversano l’aria come lame della preistoria, lacerando persino le forme dei suoni, nelle parole spezzate dalle inflessioni dialettali, nei versi degli animali imitati a fior di labbra, mescolati nel vortice arrancante di una primordiale giaculatoria.  La suggestione è forte, accentuata dalla tensione di un thriller di inusuale ambientazione campestre: la brutalità è un sottinteso stilistico che colpisce, ma è un’arma  poco affilata, portata più a percuotere che a trafiggere, come il battito di una musica tribale che non conosce acuti. Una danza macabra di madri, padri, mogli, figli si svolge all’interno della sabbiosa opacità di una provincia mediterranea arida e arretrata, dove l’amore è difficile e triste, mentre la vera gioia appartiene solo alla mente annebbiata del povero Antonio. Intanto la chiarezza del giorno, pur illuminato da un sole impietoso, non riesce a penetrare il tessuto coriaceo di un fraseggio cinematografico ostico, cupamente singhiozzante, dal senso spesso interrotto dall’incongruenza della situazione, ma a volte senza un apparente perché. Questo film, dopo averci trascinato nel suo dissonante ritratto  della frustrazione, ci abbandona infine con il pensiero a metà, con le emozioni incompiute, nel dubbio che il resto del discorso sia rimasto fuori anche un po’ per colpa nostra. Tale è l’immedesimazione che ci concede, con la sua narrazione modellata sul desolante caos delle macerie esistenziali, da lasciarci con  gli occhi impastati di polvere e lacrime, irritati dall’impossibilità di mettere a fuoco il male, il dolore, tutto quel disagio incancrenito che sembra aver incrostato anche l’obiettivo della macchina da presa. Magari il suo nascondersi è parte integrante del ritratto, del gioco della verità che non vuole soffiare via la patina della vergogna, dell’indicibile, nel momento in cui la copertura è tutt’uno con l’essenza delle cose.

 

scena

Jaulas (2018): scena

scena

Jaulas (2018): scena

 

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