Regia di James Gray vedi scheda film
Un'ultima lettera al padre.
Diceva quello che l'essenziale è invisibile agli occhi. Per poi essere schiantato in mare o al suolo dalla contraerea tedesca o da qualche Focke-Wulf o Messerschmitt della Luftwaffe.
Il prossimo futuro. Un duplice tempo di speranze e conflitti. L'umanità volge lo sguardo alle stelle in cerca di vita intelligente e della promessa di progresso. Verso le stelle. (Per Aspera) Ad Astra.
“Riusciva a vedere quello che non c'era, e s'è perso ciò che aveva di fronte.”
“Ad Astra” è la prosecuzione, il corollario e al contempo la parziale confutazione di “the Lost City of Z” (le con-siderazioni sul rapporto padri-figli e il de-siderio d’esplorazione, che da massimalista diviene nostos ed epitome dell’eliotiano “sapere il luogo per la prima volta”), in cui le magnifiche sorti, e progressive, dell'umanità, vengono sbrigativamente e retoricamente (chi si lascia sorprendere estasiato da queste brevi e precise pennellate di critica pessimista alla natura umana ritratta con cinico realismo - la catena Hilton in “2001: a Space Odyssey”, per dire - è più pericoloso di chi ne rappresenta l'essenza essendone il soggetto/modello) sintetizzate/ridotte e cristallizzate/precipitate tanto dalla dicotomica Luna - da una parte parco giochi supermarketizzato e dall'altra avamposto western di frontiera con tanto di attacco alla diligenza da parte di indiani/pirati - quanto dalle amadriadi (i cercopitecidi babbuini Papio hamadryas) rabbiose e catarrin-cannibali giustiziere dei propri carcerieri (quel che il film ricamato sulla figura di Percy Fawcett lasciava già intravedere e dava ad intendere, atraverso la spedizione parallela U.S.A. militarizzata) nelle celle alla deriva.
Da fuori fuoco:
- Sono calmo, stabile. Ho dormito bene, otto ore virgola due, nessun incubo. Sono pronto a partire, a svolgere il mio lavoro al meglio delle mie capacità. Sono concentrato solo sull'essenziale, a discapito di tutto il resto. Prenderò solo decisioni pragmatiche. Non mi lascerò distrarre da alcunché. Non lascerò che la mia mente indugi su cose poco importanti. Non dipenderò da qualcuno o qualcosa. Non sarò vulnerabile ad errori. Battito a riposo: 47. Inoltra.
- La sua valutazione psicologica è stata approvata.
Ad a fuoco:
- Sono stabile. Calmo. Ho dormito bene. Nessun incubo. Sono attivo e impegnato. Sono attento a cosa mi circonda, e a chi è nelle mie vicinanze. Sono vigile. Sono concentrato sull'essenziale, a discapito di tutto il resto. Sono incerto sul futuro, ma non mi preoccupo. Mi affiderò agli affetti più cari. E condividerò i loro fardelli, come loro i miei. Io vivrò e amerò. Inoltra.
“Ad Astra” è anche un'opera - scritta da James Gray con Ethan Gross (“Fringe”) - in cui la plausibilità scientifica [se si è in cerca di Hard SF socio-politica sull'espansione colonizzatrice umana verso il sistema solare interno e poi oltre verso quello esterno ci si rivolga altrove e si leggano allora la Trilogia di Marte (1992-’96) di Kim Stanley Robinson e quella della Luna (2015-’19) di Ian McDonald, prego, altrimenti astenersi gné-gné astrofisici e astronautici della domenica, grazie] a tratti collassa, ma la (consapevole, dotata di know-how) sospensione dell'incredulità s'ingenera quasi sempre, passando dall'ottimo lavoro sul sonoro, frutto di verosimiglianza e piccoli compromessi (da una parte il prologo baumgartneriano in atmosfera altamente rarefatta - come quella marziana - sull'antenna, manufatto dell'ingegno umano ben lontano dall'essere un componente di un ascensore spaziale, ma che comunque spinge la propia altezza ben oltre la troposfera inoltrandosi nella stratosfera, e dall'altra, nel vuoto lunare e interplanetario, i suoni trasmessi dalle onde d'urto propagate attraverso il terreno, i veicoli e gli esoscheletri), a quello, un po' più... pazzerello, che interseca ed incrocia le dinamiche balistiche delle traiettorie dei corpi in assenza di peso (non di gravità) e in apparente caduta libera inerziale con le orbitanti mega-strutture planetarie del sistema di anelli di silicati (massi, roccette e brecciolino) e polvere ghiacciata a semi-dischi piatti e cavi: ho ancora il sopracciglio sinistro bloccato in alto (memore della mia grande esperienza pratica diretta in astronautica accumulata grazie al cinema e a quella volta che sono stato a Gardaland) dopo aver assistito al ri-attraversamento da parte di McBride (perturbazione gravitazionale umana) di un anello di Nettuno (probabilmente Lassell, per esigenze inspiegate non circumnavigabile) dallo spessore di circa 25 km in una manciata di secondi indirizzandosi con gli aviogetti della tuta spaziale e con la protezione di uno scudo ricavato dal riciclo di un pannello (impugnandolo/cavalcandolo a mezza via fra uno scutum romano e una tavola a fumetti di Flash Gordon o una tavola da surf darkstar-carpenteriana) di un'antenna della stazione d’esplorazione scientifica in orbita degradata/decaduta di lì a poco detonata atomicamente per poi andare ad impattare contro la propria astronave parcheggiata in attesa sincronizzando la velocità di crociera.
Poi, più che il beyond the rings, "impagabile" è l'incontro, durante il viaggio verso Nettuno, dopo aver superato Giove e Saturno (evidentemente - ché non si sarà voluto certamente attendere o sfruttare la coincidenziale occasione di un doppio colpo di fionda gravitazionale per un veicolo in grado di coprire la distanza media Marte-Nettuno in meno di 3 mesi... - in duemilaunesco allineamento prospettico equatoriale sul piano dell'eclittica, con quello kubrickiano, limitato al mini-sistema solare gioviano, che rimane più realistico...), nel tratto fra Saturno (in effetti Urano manca all'appello e non s'è messo in fila) e Nettuno, fra l'astronave di McBride e un'altra dispersa divenuta relitto spaziale: evidentemente-bis rotta trafficata è, quella.
Brad Pitt (anche co-produttore con, tra gli altri, Arnon Milchan) sforna un’interpretazione maiuscola, non all’altezza di quella, meravigliosa, messa in piedi per “Once UpOn a Time... in HollyWood”, ma convincente.
Tommy Lee Jones non fa rimpiangere l’attesa "kurtziana". Liv Tyler, Donald Sutherland, Ruth Negga, Kimberly Elise, LisaGay Hamilton, John Ortiz, Natasha Lyonne, etc... sorreggono i contorni e la cornice.
Fotografia di Hoyte van Hoytema, chiamato apposta da Gray perché reduce dall’esperienza nolan-thornesca (“Låt den Rätte Komma In ”, “the Fighter”, “Tinker Tailor Soldier Spy”, “Her”, “InterStellar”, “Dunkirk”, “Tenet”). Montaggio di, come per “the Lost City of Z”, John Axelrad e Lee Haugen. Belle, non prevaricanti, ma nemmeno 'sì'ncisive, le musiche di Max Richter (e Lorne Balfe).
[Il film non lo esplic(it)a didascalicamente, ma questo ↑↑ fotogramma ritrae la superficie ghiacciata di Europa - satellite galileiano di Giove, un poco più piccolo della Luna terrestre - sotto alla quale ci stan (?) camin che fumano idrotermali.]
Un “Gravity” filosofico (non che il film di Cuarón, più rudemente, già non lo sia) ambientato nel 2069, 2101 o giù di lì (o in quel che poteva essere il “vero” 2001 - da cui Gray estrae, cita, ruba e re-inventa/interpreta a manbassa: basti pensare alla stanza d'archiviazione della memoria - se le cose fossero andate come sarebbero dovute andare...): arrampicarsi sul Tree of Life nel Cuore di Tenebra su Zardoz giocando a Quintet su Silent Running in orbita attorno a Solaris lungo il suo Voyage of Time...
Tra rescissione del cordone ombelicale del patriarcato e generazione del matrimonio (home in vece di house), più che Kubrick (o Nolan), da un lato, o Tarkovskij (o Malick), dall'altro, Gray è compagno di viaggio (volente o nolente) di Ray Bradbury: non è né un bene né un male, ma un dato di fatto.
Picchi di particelle ad alta energia rilasciate da raggi cosmici prodotti da esplosioni di materia oscura/esotica: un’ultima lettera al padre.
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