Regia di James Gray vedi scheda film
Venezia 76 – Concorso.
Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Gli anni passano rapidamente e le epoche vengono archiviate per guardare oltre. L’unico aspetto che l’uomo conserva immutato consiste nella deprecabile tendenza a dimenticarsi del passato, di ripetersi semplicemente ampliando gli orizzonti e la portata dei danni commessi.
In egual modo, il singolo individuo se nasce tondo non muore quadrato. Può darti a bere ciò gli pare tuttavia, se ha un obiettivo indifferibile, potrà fare anche orecchie da mercante ma puoi avere la certezza che un giorno, quando sopraggiungerà il momento opportuno, farà di tutto per conseguirlo, senza timore di trasgredire a regole e imposizioni.
Roy McBride (Brad Pitt) è un ingegnere aerospaziale, cui viene assegnata una missione vitale per salvare la Terra, vittima di catastrofi in successione. Dovrà dirigersi alla volta di Nettuno per capire cos’è accaduto a suo padre, Clifford McBride (Tommy Lee Jones), che vent’anni prima era scomparso nel nulla proprio su quel pianeta e ora è considerato la più grande minaccia per la sopravvivenza dell’umanità e del sistema solare.
Lungo il viaggio dovrà superare impedimenti di varia natura ma nulla può dissuaderlo dall’idea di rivedere suo padre e capire cosa sia realmente accaduto.
Ad Astra è la prima avventura nella fantascienza – precisamente nella space opera - per James Gray, che già con il precedente Civiltà perduta era fuoriuscito dal prediletto territorio del noir (Little Odessa, I padroni della notte) per sondare l’attrazione esercitata sull’uomo dall’ignoto.
Comunque sia, se lo sfondo è una novità e la collaborazione con Hoyte van Hoytema - già direttore della fotografia in Interstellar - garantisce una resa proficua, discetta sempre di legami incrollabili, anche se messi alla prova da una distanza apparentemente incolmabile in fatto di tempo e spazio.
Quindi, Ad Astra è prima di tutto un lungo inseguimento per fare il punto su un rapporto tra padre e figlio, da sempre rilevante nel cinema di James Gray, per chiudere i giochi con i fantasmi del passato, un percorso a ostacoli che ha il limite di assumere la dimensione di un videogame. Infatti, ha una struttura a livelli, con una serie di tappe interlocutorie e un punto di caduta dichiarato apertamente e non rinnegabile.
Così, l’immaginario non si fa mancare nulla, spremendo a dismisura il budget da 50 milioni di dollari, pochi per quanto si vede, anche se in alcuni casi si taglia corto, senza lucrare sullo spettacolo fine a se stesso. Si comincia con un rocambolesco incidente a un passo dall’atmosfera terrestre, si procede approdando sul dark side of the moon (sfidando i predoni) e sul Pianeta rosso (che più rosso non si potrebbe immaginare), nel frattempo avendo a che fare con scimmie da laboratorio e con l’avversità di chi non vorrebbe più avere Roy tra i piedi.
Queste rimangono tutte componenti per inspessire l’attesa, per far sì che i rovelli interiori divengano condivisi e la missione assuma crismi fuori dalla comune portata, con suggestioni sparigliate (le più evidenti, da Apocalypse now e 2001: Odissea nello spazio). Un dilungato viatico per approdare al vero confronto, quello del protagonista con suo padre, cui Tommy Lee Jones, già Space cowboys (peraltro qui ne compare un altro, seppur brevemente, ovvero Donald Sutherland), conferisce un impagabile ricettario di sensazioni. Un confronto tormentato che non raggiunge livelli epici e anticipa una chiusa francamente stanca, lasciando un effetto analogo a quello procurato da una tappa del Giro d’Italia di ciclismo quando, dopo la salita della vita, ti ritrovi un arrivo pianeggiante che riduce le distanze.
Insomma, Ad Astra non è il salto verso l’ignoto che in tanti agognavano come opera spartiacque e che la Disney deve vedere come l’anticristo, essendoselo trovato tra le mani come lascito (indigesto?) della 20th Fox.
Ciò nonostante, produce un immaginario stipato, fermenta il senso di minaccia e della fine di tutto, ha un culmine e descrive, più o meno direttamente, una gigantesca riflessione sul viaggio dell’umanità, di dimensioni tali da togliere il fiato. Con l’oblio, la solitudine, una mancanza senza fine, l’abbandono e il trauma che ne consegue, le colpe dei padri riflesse sui figli, lo stress psicologico di una prova destabilizzante (che Brad Pitt rende tangibile), l’avvicinarsi della deriva. Scusate se è poco.
Abissale e decadente, imperfetto ma autoritario, senza paura di essere sentenzioso.
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