Regia di Drew Goddard vedi scheda film
Bad Times at the El Royale è più che godibile per un'ora abbondante, ma taglia il traguardo delle 2 ore e venti con il fiato corto, vittima di un meccanismo che affascina ma alla lunga sfianca e di una sceneggiatura che, seppur puntuale nel suggerire domande per poi dare risposte spiazzanti, ha il difetto di giocarsi troppo presto le carte migliori
Nel 1959, un uomo seppellisce una borsa sotto il pavimento in una delle camere dell'hotel El Royale, per poi finire colpito a morte da un altro uomo. Dieci anni dopo, due uomini e una donna si ritrovano dentro quello stesso hotel - un tempo frequentato da politici e benestanti ma ormai caduto in disgrazia - ad aspettare che qualcuno venga ad accoglierli: la donna è una corista soul, gli uomini si dichiarano uno un prete e l'altro un commesso viaggiatore. Dopo l'arrivo dell'unico dipendente della struttura, un giovane che recita a memoria un panegirico sulle caratteristiche del posto prima di iniziare ad assegnare le stanze, sgommando con la propria automobile giunge una ragazza dai modi spicci e l'aria incazzosa. Nella propria pappardella introduttiva, il custode descrive la peculiarità dell'albergo, ovvero il suo esser stato costruito esattamente sul confine tra California e Nevada, con una linea rossa tracciata sul pavimento che va dal portone d'ingresso al bancone, e due corridoi ai lati dello stesso: calore e sole ad ovest, speranza e opportunità ad est, con tanto di leggi, listini e prezzi diversi a seconda del territorio che si sceglie di calpestare.
L'El Royale, ovviamente, non esiste, ma è stato partorito dalla fantasia dello sceneggiatore e regista Drew Goddard, che, in punta di metafora, riflette nel luogo la doppiezza e l'ambivalenza dei personaggi, e tramuta in incubo quel sogno americano che nell'anno dell'avvento di Nixon, e con la guerra del Vietnam in corso e la Manson Family che ammazza, sta già scricchiolando pericolosamente. Gli "sconosciuti" del titolo italiano (quello originale, di più ampio respiro, è Bad Times at the El Royale), giunti a questo punto sono cinque su sette: gli altri due si uniranno al gruppo in corso d'opera, chi prima - la sorella dell'incazzosa - e chi dopo - un guru hippie belloccio -, ma senza passare dalla reception, nel contesto di un racconto che, dopo una lunga prima parte classica, lineare e convincente, attraversa un segmento centrale nel quale regna la decostruzione, con scene proposte da diverse prospettive e angolazioni per distillare sorprese e centellinare particolari sui singoli "sconosciuti", ma che quando successivamente ritrova la linearità ha perso quota, e si sgonfia inesorabilmente in un finale prolisso e banale.
Arricchito da una colonna sonora da urlo che attinge al meglio di soul, R&B e rock anni '60 e dalle ottime prove degli attori (il finto prete Jeff Bridges e la cantante Cynthia Erivo su tutti), Bad Times at the El Royale è più che godibile per un'ora abbondante, ma taglia il traguardo delle due ore e venti con il fiato corto, probabilmente vittima di un meccanismo che affascina ma alla lunga (essendoci al timone Goddard e non Tarantino) sfianca, e di una sceneggiatura che, seppur puntuale nel suggerire domande per poi dare risposte spiazzanti, ha il difetto di giocarsi troppo presto tutte le carte migliori.
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