Regia di Drew Goddard vedi scheda film
Festa del Cinema di Roma – Selezione ufficiale.
È meglio un uovo oggi o una gallina domani? Da quando è stato coniato, questo dubbio amletico ha tolto il sonno a chissà quante persone, ma Drew Goddard non rientra in questa folta lista. Giunto al secondo film da regista, il poliedrico artista texano mette in pratica le doti che gli hanno consentito di acquisire notorietà come sceneggiatore, continuando a rilanciare imperterrito, ricorrendo a una gamma sterminata di artifici e sofismi, talvolta sorprendenti, in altri casi impossibilitati ad andare oltre un piano puramente teorico.
Durante il corso di una giornata come tante altre, il desolato hotel El Royale, ormai lontano dai suoi anni migliori, ha improvvisamente nuovi ospiti, tra cui figurano un insolito prete (Jeff Bridges), un’aspirante cantante (Cynthia Erivo), una ragazza di poche parole (Dakota Johnson) e un uomo assai loquace e invadente (Jon Hamm). Ognuno di loro detiene un segreto e attraversa un momento delicato, che potrebbe aprire nuovi orizzonti o semplicemente presentare un baratro senza possibilità di risalita.
Nella notte seguente, i loro destini si intrecceranno, decretando vincitori e vinti, chi potrà vivere il suo sogno e chi finirà sottoterra.
7 sconosciuti a El Royale è un’operazione dall’organizzazione complessa, che a tutti gli effetti assume la fisionomia di una prova di forza da parte di Drew Goddard, la cui hybris lo proietta a produrre strenuamente un coup de théâtre dietro l’altro.
Fondamentalmente, l’impostazione che espone è tarantinata, ricca di guizzi, stravolgimenti dei punti di vista e salti temporali, ma priva del talento cristallino del regista di Pulp fiction. Segnatamente, è logorroico, ma i dialoghi non hanno sempre l’argento vivo incorporato, dal nulla inventa squarci sanguinolenti, piega il tempo al suo volere imponendo numerose variazioni fino a far collassare l’azione, si affida più volte alla musica e utilizza un’unità di luogo che fa da tetto a un gruppo di personaggi tutt’altro che raccomandabili (i punti di contatto con The hateful eight sono molteplici).
Questa composizione apparecchia un ingranaggio in origine stuzzicante, successivamente più ondivago, ma con discrete armi difensive, infine tendente a sgonfiarsi, risolvendo la questione senza rinnovare la magia del fulmine a ciel sereno, con in aggiunta un pizzico di smarrimento (per come viene incasellato, lascia presagire una specie di sovrastruttura come in Quella casa nel bosco).
A prescindere dalle varie fasi, il contesto - cui si prestano scenografie dettagliate e sgargianti - rimane sempre colorito fino all’esasperazione, ma non spreme il ricco cast che lo abita, come se anche gli interpreti dovessero accodarsi al capobranco. Jeff Bridges ha il pilota automatico inserito, Dakota Johnson offre segnali di risveglio (che saranno ampliati nel prossimo venturo Suspiria), Chris Hemsworth interpreta un santone stile Charles Manson che purtroppo come nasce si esaurisce (ossia, nel nulla), mentre i più in palla sono Jon Hamm, purtroppo non sfruttato fino in fondo, e il sorprendente Lewis Pullman (figlio di Bill), costantemente propenso all’esclamazione espressiva.
Come risultato, scaturisce un frullato composto da un caleidoscopio di gusti, che però non si amalgamano costituendone uno prelibato, un meccanism che non lascia mai tranquilli, quantunque le reali impennate degne di una sottolineatura non siano poi così numerose. Purtroppo, gli squilibri sono macroscopici, sbilanciamenti che su una durata smodata finiscono per emergere ancora di più, soprattutto quando la ragnatela contempla ramificazioni multidirezionali, con arzigogoli che impediscono di sorvolare a cuor leggero.
Un’esibizione, che a forza di strafare, estraendo conigli dal cilindro in rapida successione, rimane senza munizioni, peraltro proprio quando avrebbe dovuto scatenare il suo meglio.
Intrigante, alla lunga spossante.
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