Regia di Jacqueline Lentzou vedi scheda film
Sofia. La paura di vivere declinata nella voglia di amare.
Amare. A spizzichi, quasi di nascosto, negli angoli della vita. Per chi è senza famiglia sono gli istanti di solitudine, quelli slegati da tutto e da tutti, quelli che davvero contano. Il loro vuoto è un invito a riempirli di sé, di ciò che di meglio si riesce a dare, piangendo, cantando, o magari ridendo in compagnia, ma sempre e solo per se stessi. Se la storia di un quotidiano affanno deve poter respirare dentro il breve spazio di un cortometraggio, bisogna che ogni immagine equivalga ad una pulsazione: un palpito che, in questo caso, batte fuori ritmo perché unico e irripetibile, e risulta isolato dal senso perché interamente immerso in un effimero presente. Questo modo di narrare è tanto fresco per levità e fuggevolezza, quanto intenso per l’esclusiva originalità di emozioni dall’impronta personalissima, inedite improvvisazioni del gusto di cogliere al volo ciò che il pensiero e le occasioni offrono. Sofia è una ragazza che dalla marginalità del suo dolore – così trascurabile davanti alla confusa vastità del mondo – trae la forza di inventare sempre nuovi modi di godere nello scoprirsi diversa, nobilmente dissonante rispetto alla solita allegria e alla solita tristezza, capace com’è di tingere l’aria con le ribelli e sottilissime pennellate del dubbio. Il più singolare pregio di questo ritratto femminile – opera della giovanissima Jacqueline Lentzou – è racchiuso in quella magica miscela di musica e colore in cui un fremito adolescenziale riesce a condensarsi, fino a farsi spessore pittorico, profondità di luce, corposità di sguardo: un tono che si sovrappone plasticamente alla realtà per ridisegnarne il profilo, addolcendolo con le morbide protuberanze del sogno, con quei dolci rilievi della tenerezza che rendono carezzevole la nostra fragilità.
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