Regia di Lucio Fulci vedi scheda film
Un western all’italiana che travalica ogni confine estetico assodato e crea un’atmosfera unica nel panorama dello Spaghetti-W. Lucio Fulci, autore, racconta, o forse non racconta e lascia che sia, la storia di quattro disgraziati, neanche peccatori (anche se il peccato è la chiave di volta del film), ma proprio 4 disgraziati alla deriva, che affrontano un viaggio sul Mito cinematografico dell’on-the-road keruachiano attraverso il West almeriense. Come in tutti i road-movie anche qui troviamo personaggi eterogenei, luoghi selvaggi e improbabili, spazi aperti, vagabondaggio, inserti narrativi a se stanti, e così via. Alle moto di Easy Riders si sostituiscono i cavalli, ma la sostanza non cambia: il viaggio fisico, geografico, spazio-temporale, è una dichiarata indagine interiore che mette a nudo l’individuo meglio di qualsiasi legge o norma o convenzione dell’ordine costituito. L’avversione all’ordine sembrerebbe essere l’altra chiave interpretativa del film, sia se mostrata dalla sua soggettiva (quella di un mussoliniano sceriffo interpretato dal folle Donald O’Brien), sia se mostrata dalla soggettiva dei disgraziati che a loro modo sono rinnegati dai “giusti” tanto quanto loro li rinnegano, sia se mostrata dagli occhi diabolici del sadico Chaco di Tomàs Milian che si fa bandiera dell’ordine. Il suo comunque è un ordine fine a se stesso, che non porta felicità, ma violenza e dolore, ed è lo specchio di quell’ordine chiamato e voluto ad ogni costo dallo sceriffo di Salt Flat.
Ma al di là di ogni interpretazione che si voglia dare al film, che racconta sì di un viaggio, ma senza dirci se il viaggio si compie o se il protagonista cambia, come è prerogativa narratologica di tanti “Viaggi dell’eroe”, ciò che rimane memore nel tempo è l’estetica che Fulci ha voluto imprimere a tutti i metri della pellicola. Le luci sono speciali, i colori dipingono in modo differente i paesaggi torridi e solari con cui da sempre è fotografata l’Almeria e il suo deserto. Il West di Lucio Fulci è un west malinconico ma sognante, delirante quanto dolce. Allo stesso tempo sa essere incantevole come un sogno, come un altrove che tutti vorremmo, ma sa anche essere spietato e triste come un’inferno dal quale scappare. Anche la colonna sonora e le sue canzoni anacronistiche, incidono sul film come in poche altre occasioni, e sanno creargli quel lirismo difficile da raggiungere, senza però scadere nella retorica di una grammatica ricattatrice. Come in “Pat Garret and Billy the Kid” del Maestro Peckinpah, omaggiato da Fulci nella iperrealistica sparatoria iniziale a Salt Flat, anche ne “I Quattro dell’Apocalisse” ci troviamo in un west malinconico, e come in tutte le malinconie c’è un qualcosa di sensuale che richiama l’abbandono dei sensi, i piaceri dell’alcova più intima e segreta. Quei sogni ad occhi aperti, dell’adolescenza più sognatrice, dove le passioni e le pulsioni sessuali sono irrefrenabili e ci si sente sempre come ubriachi buttati sotto il sole di luglio. C’è un piacere, un orgasmo silenzioso e lento, che pervade tutte le scene, tutte le inquadrature, grazie alla sapiente fotografia e alle intuizioni registiche di Fulci stesso.
“I Quattro dell’Apocalisse” è un sogno che vira nell’incubo più volte, ma preserva sempre lo status di altrove onirico in cui tutto e possibile, e in cui ogni sensazione è provabile.
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