Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
C'era una volta, e c'è ancora, il cinema di frontiera di Quentin Tarantino
Vol. I: Tante citazioni
C’era una volta la vecchia Hollywood: pellicole intramontabili, lustrini e paillettes, codice Hays, “Casablanca” e “Via col vento”. C’era una volta anche la nuova Hollywood: laureati, motociclisti in chopper e Roger Corman. C’è oggi – più solido, potente e popolare che mai – il cinema ucronico di Tarantino che, da “Bastardi senza gloria” in poi, si diverte a riscrivere la Storia nutrendola di cinema. Così un manipolo di ebrei cacciatori di nazisti fa fuori l’alto comando del Terzo Reich, gli schiavi neri si ribellano al potere sudista e vincono, soldati unionisti ricevono lettere da Abramo Lincoln tra verità e menzogna. E cosa accade a Sharon Tate, stella emergente del cinema americano anni ‘60? La vicenda è nota: attrice talentuosa, giovane sposa di Roman Polanski (eccentrico, bassino, un po’ antipatico in quanto europeo), poi la sua vita intrecciata per sempre con quella del pazzo Manson.
È un film di frontiera (tra vecchio e nuovo) il “C’era una volta” di Tarantino, un film grande, complesso, importante, che rimanda a Leone, cita Corbucci, Margheriti e tanti classici. C’è molto divertimento, ci sono molti cameo: sì, quello di Bruce Lee è irresistibile; quello di Steve McQueen malinconico. Nel cinema tarantinato finzione filmica e realtà si fondono, diventando un’unica cosa indistinguibile. Nei “Bastardi” lo schermo (linea di confine che divide la realtà dall’immaginazione) prendeva fuoco e l’Orso Ebreo poteva uccidere Hitler a colpi di mitra; qui, Leo DiCaprio/Rick Dalton può dimostrare finalmente al suo pubblico di aver imparato a maneggiare il lanciafiamme, e questo atto distruttivo/creativo (recita o vive? crea o distrugge?) vale più di qualsiasi battuta ben imparata. Solo così, alla fine, potranno aprirsi per lui i cancelli di Cielo Drive, dove la vita scorre ancora grazie al cinema.
Vol. II: Trip mentali (e non)
Come Rick Dalton diventa infine se stesso (annullando la distanza che corre tra cinema e reale), anche i luoghi appartenuti un tempo al cinema diventano adesso quello che prima avevano solo finto di essere. La setta Manson è asserragliata nello Spahn Ranch (ex-set cinematografico) come un pugno di moderni cowboy dentro Fort Apache, esiliati e minacciati dalla cultura wasp incarnata da un irresistibile e massiccio Brad Pitt. Loro, hippie assassini che si nutrono di finzioni televisive, diventano selvaggio West e vengono invasi da uno straniero biondo e senza nome (non è buono, non è brutto, non è cattivo), che non ha paura di aprire porte che non dovrebbe aprire (soprattutto se sei in una ricostruzione artificiale del Texas, dove le motoseghe vanno alla grande).
Dunque, c’era una volta il cinema classico americano, c’era una volta lo spaghetti western, c’era una volta la Hollywood nuova e satanica di Polanski. Cosa resta, allora? Restano il potere ipnotico della visione e la potenza di un immaginario condiviso che, da solo, può cambiare il corso della storia. Resta Quentin: vintage come in “Pulp Fiction”, pacato come in “Jackie Brown”, cruento come in “Kill Bill”, innamorato come sempre dei suoi personaggi (soprattutto quelli femminili). Resta l’immagine di una ragazza con gli occhiali grossi, che si diverte guardando se stessa proiettata sullo schermo, felice nell’accorgersi che anche le persone, sedute al buio accanto a lei, ridono. Proprio come noi che, seduti in sala ma fuori dallo schermo, ci commuoviamo perché sappiamo già come finirà la storia (forse).
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta