Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
Arduo produrre una recensione di questo nuovo film di Quentin Tarantino. Dalla sala si esce storditi, attoniti e fortemente perplessi, e non già con la subitanea consapevolezza di aver assistito a qualcosa di epocale (un po’ come poteva accadere ai tempi di Pulp Fiction o Bastardi senza gloria) ma piuttosto l’esatto contrario.
Di aver assistito, cioè, all’inizio della fine. Del declino di uno dei (piaccia o non piaccia) maggiori registi degli ultimi venticinque anni, che “solo” un decennio fa era ancora capace di stupire e di stupire alla grande. Che “solo” un sette anni fa era ancora in grado di stupire per la gran parte se non del tutto. E che invece adesso pare solo avviarsi inesorabile verso il declino (checché ne dicano gli incassi o gli elogi al solito sperticati degli immancabili “fanboys”).
Al di fuori dei “cultori” acritici del regista di Knoxville in pochi si aspettavano un nuovo capolavoro (dopo averne già prodotti un paio, ad essere onesti le statistiche non si può dire giocassero propriamente a favore…), ma anche senza aspettarsi sfracelli, mari e monti e “inattingibili vette”, questo C’era una volta a Hollywood non può fare a meno di deludere. Si diceva che dalla sala si esce attoniti e perplessi… ebbene, per il semplice fatto che il film si può dire sia il peggiore prodotto dall’autore dai tempi di Grindhouse.
Lascia, al termine della proiezione, una quasi eterea, eppure “tangibilissima”, sensazione di vuoto cosmico, di nulla astrale e già ad un paio di giorni di distanza si farà fatica a ricordarsi con l’autentico piacere del passato una battuta veramente memorabile o una scena veramente eccezionale (certe parentesi sono simpatiche, ma nulla più).
L’entusiasmo, l’euforia, l’adrenalina, il sorrisetto un po’ ebete ben stampato sulle labbra all’uscita delle proiezioni di Pulp Fiction, Bastardi senza gloria e (persino, persino) Django Unchained? Svaniti. A rimanere, in questo caso, è poco più di un vacuo (e, come giustamente detto da qualcuno, del tutto narcisistico) “auto-referenziale e auto-masturbatorio auto-encomio” di un regista forse definitivamente in crisi da sindrome da citazionismo acuto, nonché un monumento non troppo esaltante ad un cinema che non esiste più (e che, per certi aspetti, interessa solo a lui e a pochi altri, quando si arriva a parlare della Serie B-C-D-E-F e Z, sia nell’ambito della TV che, ovviamente, del cinema).
Un film inutile e, in certi momenti, sorprendentemente fiacco, che non aggiunge proprio nulla alla filmografia (e, se vogliamo esagerare, alla “poetica”) di un regista che, ripeto, pare starsi perdendo per strada consapevole che qualunque cosa faccia tanto finisce per venir comunque acclamato a gran voce (e difatti...).
Qual è il punto? Che il cinema può “redimere la Storia”, “correggerne le storture”, che il cinema è una fantastica macchina dei sogni all’interno della quale tutto è possibile? Già tutto detto, e molto meglio, nel “glorioso” Inglourious Basterds. Nell’ultima mezz’ora s’intravede il Tarantino che fu, ma neanche più di tanto, salvo i veramente pochissimi minuti della “resa dei conti” (sulla quale, comunque, a dirla tutta incombe, per l’appunto, il rischio [affatto scansato] di scivolare in un’inutile riproposizione dello stesso schema proprio dell’ormai pluri-citato capolavoro del 2009).
E dunque, cosa rimane? Un film (filmetto) pieno di divagazioni, digressioni, “fuggevoli apparizioni”, parentesi inutili, flash e siparietti (talvolta anche vagamente simpatici, siamo d’accordo, come quello coinvolgente Bruce Lee o quello che “cala” DiCaprio nei panni del protagonista de La grande fuga [ovvero, di Steve McQueen]), che però la maggior parte delle volte non impressionano un granché e si protraggono oltre ogni limite (è il caso delle lunghe scene sul set di Lancer, minuti e minuti sprecati dei quali gli unici realmente da ricordare rimangono i pochi, pochissimi, del monologo imbastito dal personaggio interpretato da Dalton, grazie soprattutto ad un eccellente prova di DiCaprio).
Scenette, siparietti, che tra l’altro appaiono buttate lì un po’ a casaccio, e che non contribuiscono a costruire un discorso, una narrazione, un significato, qualcosa (come poteva essere, per l’appunto, in Django o Pulp Fiction) ma solo a soddisfare la crescente foga iper-bulimica di un regista ormai perso per il suo mondo incantato.
E tutto questo senza comunque soffermarsi troppo sul più che ambiguo, si potrebbe dire quasi retrogrado, sentimento di nostalgia, fin malinconia, rivolto ad un tempo passato ovviamente non poi così bello, fantastico e scintillante.
Perché risulta lampante come Tarantino entri in contraddizione da solo, diviso tra la fotografia calda e solare e la (fin maniacale) ricostruzione d’epoca che hanno l’ovvio intento di “idealizzare” un clima e un periodo, e però al tempo stesso il tentativo di rappresentazione, molto stereotipica, del “lato oscuro” dell’industria dello spettacolo (l’unica sequenza pienamente riuscita, sia a questo proposito sia, forse, dell’intero film, è quella al “Movie Ranch” di Spahn dove il regista riesce infine a raggiungere un livello di tensione praticamente assente per tutto il resto del film).
Ma rimane, per concludere, la consapevolezza di non aver assistito ad un film poi così epocale come si vorrebbe far credere, l’amarezza di fronte ad un’operazione ricolma di totale, completa, assoluta ed ostentata auto-indulgenza, che se fosse stata prodotta dalla mente di un perfetto sconosciuto sarebbe stata cestinata prima ancora di addentrarsi nella fase di pre-produzione.
Bravi, in ogni caso, gli interpreti, un ensemble abbastanza sensazionale (tra i protagonisti, DiCaprio e Pitt a “trionfare” è il primo) e comunque impressionante la già citata ricostruzione d’epoca.
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