Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
Stuck in the sixties
Al film numero nove il regista americano ritrova tutta la spumeggiante verve citazionista che - nel bene o nel male – caratterizza in toto la sua produzione cinematografica. Il periodo storico scelto – la Los Angeles del 1969, ricostruita in materia impeccabile e incredibilmente accurata – si rivela infatti unità di luogo e di tempo particolarmente congeniale all’ultima fatica di Tarantino.
Una visione nostalgica che ammanta di musica, colori, insegne e locali vintage una creazione scenica sublime, una città (all’epoca) magica nella quale si aggira(va)no i protagonisti della pellicola: che sono – ufficialmente – Pitt, Di Caprio e Margot Robbie ma, in realtà, anch’essi facenti parte di un quadro d’insieme esaltante; dove la star ha la stessa importanza della comparsa o guest d’autore (se ne contano decine) per definire un ambiente filmico raramente espresso in maniera così particolareggiata.
Un’introduzione che avrebbe potuto (per chi scrive) andare avanti all’infinito, capace a più riprese di toccare le corde emotive dello spettatore (chi scrive si è sorpreso spesso col sorriso - ebete - stampato in faccia durante la visione) in un caleidoscopio entusiasmante di personaggi (Steve McQueen, Bruce Lee, Roman Polanski, Sharon Tate, Charles Manson e decine di altri "tipi" carismatici interpretati – per una comparsata o col ruolo di protagonista - da attori completamente in parte) capaci di riempire magicamente il perfetto spazio scenico e sceneggiativo loro costruito.
Decine gli spunti e i richiami a pellicole (nel film..all’interno di un [finto] film) col solito piglio citazionista ma – come non accadeva ormai da anni – perfettamente calibrato e magistralmente a fuoco; un periodo (mitico, agli occhi del regista) di passaggio tra due ere: la Hollywood classica che cedeva gradualmente il passo alla “New Hollywood”, con le scorie (umane ed economiche) che ogni cambio generazionale – in ogni ambito umano – si lascia alle spalle. Ma la vecchia guardia – secondo Tarantino - non è disposta a cedere le armi con facilità, e il nuovo che avanza (“fuckin’ hippy !” - cit.) subirà – con violenza, of course - un contraltare (anti) storico fragoroso.
Se un paragone può essere fatto con la filmografia passata di Tarantino, OUATIH presenta molte analogie –stilistiche e di forma – con L’ottimo “Jackie Brown” del 1997: andamento lento, esuberanti elucubrazioni nostalgiche e interpreti (magnificamente) decadenti; intrecciato però col vezzo – già praticato in “Inglorius Basterds” – di riscrittura ucronica di eventi chiave della “storia”, sia con la S maiuscola che minuscola. Vena nostalgica perfettamente esemplificata dalla “dolcezza” d’approccio – considerato il tip(acci)o alla sceneggiatura e dietro la macchina da presa – volta alla definizione del personaggio di Sharon Tate (interpretata dalla splendida Margot Robbie), “dolcemente” idealizzata ed algidamente tratteggiata (la magnifica lunga sequenza – alleniana ? - nel cinema durante la visione di “Wrecking Crew” di Phil Karson).
Il registra dimostra insomma un amore incondizionato per un periodo irripetibile, mitizzato e maledetto, nella sua fase finale; rifiutandone il finire (rifuggendo - quasi del tutto - perfino nella colonna sonora la psichedelia imperante all’epoca, proponendo al massimo i primi Deep Purple periodo “Hard Beat”) e riscrivendolo a sua discrezione.
Con l’agnello sacrificale di un epoca che scampa al suo destino. E si vendica (per interposta persona).
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