Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
Un bel ’69 per capovolgere la storia di un anno memorabile, spartiacque tra bene e male, vecchio e nuovo, perdita dell’innocenza e consapevolezza del male. “C’era una volta a Hollywood” è un viaggio ai margini della fabbrica dei sogni: un attore televisivo a rischio naftalina, il suo stunt-man alter ego protervo e factotum. Vivono nella collina dei divi e delle opportunità, navigano nel mare cinefilo dell’autore tra cinema di serie B e la serie A vicina di casa, sfottò al fu Bruce Lee e omaggi alla cultura dei set con roulotte annessa.
La pellicola di Tarantino ha in almeno quattro scene madri il cuore pulsante: l’omaggio alla stupenda Sharon Tate che si rivede in un film crepuscolare della vecchia Hollywood con un già decrepito Dean Martin; il rimorchiare esplicito di Pussycat contrapposto alla lentezza perbenista di Cliff apre lo scenario verso la visita al ranch hippie: inquietante, teso e infine violento - oltre l’incontro con il vecchio George (un grande Bruce Dern, ancora Hateful) - e l’ombra di “Charlie” Manson (già apparso di sguincio torvo come un corvo) aleggia sinistra; il confronto fuori e dentro il set di Rick Dalton con la piccola Trudi Fraser è eccezionale e in crescendo, intimo e rigoroso: Leo Di Caprio con lampi alla Jack Nicholson è da applausi, come gli dice ad un orecchio la stessa Julia Butters; il pre-finale intinto nell’acido è un pezzo tarantinato sulla strage di Bel Air della setta di Manson; a suon di “Illusions of my childhood” lascia un segno maturo nel cinema maiuscolo del geniale Quentin.
La verbosità del suo cinema condita con il fottuto turpiloquio verista è un marchio imprescindibile, il citazionismo auto e metafilmico lascia senza fiato per fantasia e originalità (può bastare l’incursione di Dalton nel classico “La grande fuga”);musica sempre e ovunque a palla; attori da incorniciare con Brad Pitt super e in fieri, Al Pacino gradito ospite, Margot Robbie autentica, il feticcio Michael Madsen in cameo, Kurt Russell in gran spolvero bis. Come la carriera di Dalton è di passaggio verso l’ignoto, il finale è la libertà espressiva definitiva di un mo(n)do (di fare) che non sappiamo immaginare fin dove potrà spingersi. Tarantino sembra dirci…era un fottuto sessantanove e io ci stavo dentro, fucking!
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta