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C'era una volta a... Hollywood

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

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La recensione su C'era una volta a... Hollywood

di maghella
6 stelle

Febbraio 1969 (le date sono importanti se non fondamentali per entrare nel mood del racconto del nono film di Quentin Tarantino). Rick Dalton è una “vecchia” gloria televisiva degli anni '50, grazie ad una serie western di successo. Un successo che Dalton baratta per una mediocre carriera cinematografica che ben presto abbandona per tornare a piccoli ruoli da cattivo nei telefilm in tv. Cliff Booth è da sempre la sua controfigura, riciclato nei tempi di “magra” in autista e tuttofare al servizio di Dalton. I due uomini sono amici da molti anni, Cliff è diventato una sorta di rifugio per Rick, una spalla sulla quale piangere, un segretario, una guardia del corpo. I vicini di casa di Rick sono, da qualche tempo, i coniugi Polanski. La bella Sharon Tate (moglie di Roman) è sulla cresta dell'onda, l'attrice esordiente del momento. Le storie di declino di Rick e di ascesa di Sharon si intrecciano senza incontrarsi mai se non nel finale, mentre Cliff attraversa la fine di un decennio senza apparenti cambiamenti, portando su di sé il peso di una accusa di uxoricidio che lo ha segnato agli occhi dell'opinione pubblica. Così come per “Bastardi senza gloria” (ultimo film di Tarantino che mi è piaciuto), anche per questo “C'era una volta ad Hollywood”, Tarantino impone un periodo storico ben preciso, utilizzando personaggi realmente esistiti come Sharon Tate e Roman Polanski, ovviamente, ma anche Steve McQueen o Bruce Lee, che contribuiscono non poco ad influenzare lo stato d'animo dello spettatore. I personaggi sopra citati diventano infatti una cornice realistica per evidenziare le storie dei 2 protagonisti di finzione. Rick Dalton, sul viale del tramonto è una Norma Desmond anni '70, mentre Cliff Booth è il fido Max, peccato però che Quentin Tarantino non è Billy Wilder. Non che il film non sia carino e piacevole, tutt'altro. Nonostante i 165 minuti di durata non ci sono momenti noiosi, forse proprio grazie ai tanti rimandi storici che il film propone. Purtroppo questa grande voglia di raccontare di Tarantino si risolve in più punti in grande confusione narrativa, con personaggi che appaiono e spariscono senza lasciare traccia, se non un sorriso, ma che servono a ben poco per la storia vera e propria. Il grande talento di Tarantino è stato (almeno per i primi film) quello della narrazione, di riuscire a trasportare passato e presente in maniera fluida, di intrecciare più storie per arrivare ad un punto finale unico risolutivo: “Le iene” e “Pulp fiction” rimangono i 2 esempi migliori di questo stile narrativo. In questo ultimo film qualcosa non funziona, tanto che nella seconda parte c'è la necessità di inserire una voce narrante (quella del produttore diDalton visto all'inizio del film, che poi è interpretato da Al Pacino che nonostante trucco e parrucco rimane sempre e solo Al Pacino), che tratteggia in poche scene il salto temporale di 6 mesi che servono per arrivare alla fatidica data dell'8 agosto, quella della mattanza dei discepoli di Manson alla casa dei Polanski. Ovviamente Tarantino gigioneggia molto sulla soluzione finale, e modifica a suo piacimento (ma anche al nostro si intende) l'epilogo dei fatti storici, e se in “Bastardi senza gloria” Hitler viene ucciso, in “C'era una volta ad Hollywood” i 3 coglioni di casa Manson hanno il piacere di incontrare un allucinato Cliff Booth. Come suggerisce il titolo del film, una bella favola, molto infiocchettata e forse inutilmente lunga, con ottimi protagonisti, bei costumi, e scene di azione, ma che alla fine lasciano poca soddisfazione.

Se nei primi film di Tarantino avevo apprezzato soprattutto i bellissimi dialoghi, in questo ultimo mi sono apparsi un po' fiacchi, quasi affaticati a dover rincorrere uno stile che il regista pare aver perso in parte. Quello che invece è stato il vero punto di successo è stata la scelta dei 2 protagonisti. Leonardo DiCaprio è Rick Dalton, intenso e camaleontico nel passaggio temporale che la storia gli impone. Forte della scuola Scorsesiana (passatemi il termine), pare non aver più indugi nell'interpretare personaggi fragili e sempre in bilico tra il successo e la deriva. Ma la vera differenza per la buona riuscita del film, quello che offusca tutti quelli intorno a lui, è  Brad Pitt in stato di grazia. Classe 1963, Brad Pitt a 56 anni suonati mette a nanna tutti i toy boy del momento e mette in mostra una carica sensuale ed erotica matura senza nessun problema. Il personaggio di Cliff Booth è un insieme di Steve Mcqueen, di Charles Bronson, di James Dean, di Paul Newman, di Robert Redford...tutti incarnati nel fisico di Brad Pritt, che pare raccogliere nei tratti duri del suo viso tutta la storia del cinema americano degli anni '50 e '60. Un volto indurito dagli anni, un fisico con le cicatrici di una vita difficile, che paiono scomparire quando Brad-Cliff sorride. Brad-Cliff è il manifesto di una Hollywood che forse ora non esiste più o (peggio) non è mai esistita, di quella che casca sempre in piedi, che non si spaventa dei ruoli difficili, che mantiene la testa sempre sulle spalle, che vuole vedere le cose come stanno, che non abbandona gli amici nel momento del bisogno, che non va con le minorenni, che sa combattere. C'era una volta ad Hollywood, va bene, ma sicuramente c'è ancora (eccome) Brad Pitt.

 

 

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