Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
Quentin Tarantino oramai è un brand consolidato, poiché ogni suo film è diventato un evento e quando poi decidi di usare come titolo C'era una volta... a Hollywood, rimandando con il ricordo a certi capolavori assoluti e definitivi di Sergio Leone, le aspettative sono ancor più maggiori, specie perché il regista ambientando il film nel 1969 ha dichiarato di aver scelto tale anno proprio per mettere in scena uno scontro tra la Hollywood classica morente e la New Hollywood che viene definitivamente alla ribalta con i successi di Un Uomo da Marciapiede e Easy Rider, nonché la famosa estate di Woodstock che fa da contraltare il brutale omicidio di Sharon Tate ad opera di Manson, che sconvolse e lasciò sbigottito l'intero paese.
Chi scrive, sostiene che Tarantino il meglio lo abbia dato negli anni 90', dopo è stato solo ripetizione, eccesso e occasioni mai sfruttate appieno e lavori sopravvalutati, anche se il suo ultimo film; l'ottimo The Hatefull Eight (2015), ci aveva consegnato un regista maturo finalmente e mai così cattivo e pessimista rispetto ai problemi sociali del suo paese, usando civilmente la sua arte per fare un qualcosa di ben poco conciliatorio e socialmente incisivo e veramente revisionista questa volta della storia di un paese; per questo per la prima volta critica e pubblico gli voltarono le spalle, così il regista decide con il suo nono film di realizzare un film sul cinema chiamando le due superstar Brad Pitt e Leonardo Di Caprio, una sorta di chiaro rimando a Robert Redford e Paul Newman, nonché Margot Robbie attrice in forte ascesa, condendo il cast di vecchie glorie come Al Pacino e Kurt Russell disseminati qua e là nella narrazione.
Rick Dalton (Leonardo Di Caprio), a fine anni 50' sembrava avere una carriera di sicuro avvenire così come la sua controfigura Cliff Booth (Brad Pitt), allora decide di mollare la serie TV per il cinema, purtroppo la carriera non decolla tra occasioni mancate, sfortuna e film non troppo eccelsi, si ritrova nel 1969 ad essere un attore sul viale del tramonto e superato dai tempi cambiati a favore di nuovi talenti attoriali usciti dall'Actor's Studio tutto mosse, variazioni di timbro e pause; metodo recitativo che cozza pesantemente contro quello istintuale degli attori della vecchia generazione.
Ora Rick Dalton si arabatta alla men peggio per lavorare in ruoli da cattivo, mentre la sua controfigura Cliff Booth s'è ridotto ad autista di Rick, e gestore di piccole faccende per conto dell'attore; il tutto si incrocia con la storia di Sharon Tate e di Roman Polanski, entrambi vicini di casa alla villa di Rick Dalton, il quale spera di fare colpo su Polanski appena uscito dal successo di Rosemary's Baby e di avere la sua carriera rilanciata.
La narrazione si sviluppa tramite un montaggio alternato delle vicende di Rick Dalton alle prese con un ruolo da cattivo per una nuova serie TV, mentre Cliff Booth tra un lavoretto per Dick e l'altro, vaga senza una meta tutto il giorno per la città ed infine Sharon Tate (Margot Robbie) è utilizzata da Tarantino come McGuffin; elemento che potrebbe essere totalmente rimosso dal film e nulla cambierebbe narrativamente, ma priverebbe di un controverso finale, che finisce per dare un senso ad un film che per oltre 2/3 gira (volutamente?) a vuoto senza meta e senza scopo, un po' come il nostro Cliff Booth, ed infatti il tutto comincia a sbloccarsi proprio quando quest'ultimo carica in macchina una giovane Hippie.
Il montaggio non regge per tutti i 165 minuti di durata, Tarantino rispetto a Cannes ha cambiato qualcosina stando alle dichiarazioni, ma il risultato evidentemente non si giova dei suoi sforzi visto che film sembra avere i medesimi difetti di Django Unchained; stiracchiato e sfilacciato all'eccesso, dalla morte di Sally Menke, il regista tranne in The Hatefull Eight, non ha più trovato una quadra ferma sul ritmo e la durata dei suoi film che è schizzata verso le tre ore quasi a sfidare il suo maestro spirituale Sergio Leone, ma senza il senso di poesia del tempo da parte del regista romano.
Di cosa parla per 2/3 di film Tarantino? Un omaggio a Sharon Tate? Il crollo di un mondo oramai morente? Un attore ed il suo doppio ombra? L'ambizione sfrenata sembra aver giocato un brutto scherzo al regista, il quale sceglie di scappare in una comforte zone sicura osando ben poco, i dialoghi sono meno logorroici e sembra così di voler far parlare la macchina da presa e per 3-4 volte ci riesce alla grande, poi per il resto si crogiola in queste riprese tirate avanti per le lunghe mostrando ben poca ispirazione nelle sequenze metacinematografiche con Rick Dalton attore così poco ispirate e anche banalotte, tanto come i jump cut in cui Dalton istericamente si dispera nel camerino.
Le digressioni in tono semiserio se non dissacrante (controversa la smitizzazione di Bruce Lee o gli attori sostituiti agli interpreti nei film citati), alcune di brevissima (una pure autoreferenziale al suo Bastardi Senza Gloria, film trash di bassa macelleria sopravvalutato) e altre di lunga durata, si sprecano per tutta la durata del film, arrivando a frammentare e diluire ancor di più l'insieme di una pellicola che a conti fatti pur durando poco meno di 3 ore, non sviluppa il pieno potenziale di taluni personaggi nonché tutta la sequenza finale dirà ben poco a chi non conosce la vicenda di Charles Manson.
Un film che dovrebbe essere il tramonto di un'epoca, invece è pervasa dalla fotografia luminosa di Richardson, come a simboleggiare che in fondo gli anni 60' del cinema americano siano stati un periodo aureo quando in realtà fu un'epoca di grosse trasformazioni e il più grande periodo di rinnovamento dell'intero sistema dai tempi del cinema muto, anche per via dei grandi mutamenti sociali; eppure nella Los Angeles di Tarantino del 1969 l'immagine è tutta così perfettina, solare, luminosa e limpida, non c'è aria di rinnovamento brutale dove il nuovo seppellisce il vecchio così come le forri scosse sociali derivanti dalla guerra in Vietnam senza fine e la liberazione sessuale, il sociale forse poggia concettualmente troppo sulla sequenza di gran lunga migliore del film, ambientata allo Spanch's Movie Ranch, dove Tarantino sembra avere uno sguardo conservatore e negativo sulla comunità degli Hippie, anche se crea una scena geniale con la commissione tra un nuovo contestatario che ha preso possesso delle rovine di un genere che André Bazin considerava "il cinema americano per eccellenza", pesantemente picconato dagli Spaghetti Western italiani più violenti, cattivi e realistici nella rappresentanzione di un'epoca della storia americana.
Tra l'altro questa sequenza è anche quella in cui Tarantino sperimenta maggiormente (forse con dei debiti verso Lucio Fulci, il terrorista dei generi, poiché in un western era capace di inserire elementi presi da altri generi, creando un risultato nuovo), dando un tono ed un inquietudine degna di un grandissimo horror, cosa mai sviluppata o tentata in precedenti film dal regista.
Un film conservatore quindi? D'altronde il titolo è un forte indizio, siamo ad Hollywood, nel regno dell'industria della creazione cinematografica ricordata da Tarantino con toni idealizzati e fuori dal contesto dell'epoca, in sostanza rivede la storia a modo suo arrivando nel finale a fare un'operazione favolistica che mette in comunicazione tra loro dei fantasmi spazzati via dalla storia, con esiti però controversi sui successivi avvenimenti ed in primis lo sviluppo della Nuova Hollywood, che alla fine secondo Tarantino il nuovo accogliendo e non rinnegando in toto il vecchio (solo Peter Bogdanovich ha fatto questo tra i registi della Nuova Hollywood) potesse svilupparsi verso nuove strade e sentieri per far si che il rinnovamento aveva possibilità di poter durare più a lungo? Interpretazione soggetta a dibattiti e su cui Tarantino si mostra con tale scelta fortemente a favore del vecchio cinema; tralatro con tutto l'atto finale giocato su toni da caricatura spinti all'eccesso che finiscono con l'eliminare ogni aura malsana a Charles Mansion.
Margot Robbie compie l'ordinaria amministrazione, più della bellezza non ci mette dato l'esiguo minutaggio al suo personaggio, quindi chi vince la sfida tra Pitt e Di Caprio? La vince di sicuro Brad Pitt per via di un personaggio scritto meglio e di sicuro per via del punto di vista più inconsueto, un essere che per portare un po' di soldi a casa, fa ogni genere di acrobazia lasciando la gloria e la fama all'attore in scena, così facendo non verrà mai ricordato anche se le sequenze più rischiose e spettacolari sono a carico suo (e la sequenza finale con Manson è l'essenza della filosofia dello stuntman), Di Caprio convincente con Rick Dalton uomo (vedere quando legge il libro western alla bambina), ma molto meno quando è sul set caricando troppo istericamente la sua recitazione con i suoi manierismi recitativi esibiti all'eccesso (il suo pugno chiuso vicino alla bocca ha stufato), mancando così di freschezza.
Il film sta incassando ed è il meglio recensito del regista in America dai tempi di Pulp Fiction, io non sono un'estimatore del suo cinema, però va detto che oggettivamente Tarantino è in fase di stanca e calante poiché alla fine un film del genere è un'occasione mancata, mentre fanboy ed affini, nonché recensori sprovveduti urleranno al capolavoro (con rigoroso selfie... pardon autoscatto con vestito nero in giacca e cravatta stile Iene da pubblicare su Facebook, come il gregge che segue la moda del proprio pastore).
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