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C'era una volta a... Hollywood

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

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La recensione su C'era una volta a... Hollywood

di EightAndHalf
9 stelle

Quentin Tarantino ci ha da sempre abituati ai suoi capricci. Dapprima i capricci narrativi di Pulp Fiction, con regole dell’intrattenimento che venivano riscritte ad ogni sequenza; dopo, i capricci storici, che rivedevano accadimenti reali in una chiave inedita a partire da Inglorious Basterds; e infine il nuovo inedito capriccio di Once Upon A Time in Hollywood, un capriccio “cinematografico” tout court. E le regole sono cambiate ancora. 

Il film è un viaggio imprevedibile fra generi diversi e strati diversi di realtà, un film in cui finzione e realtà risultano “diegetici” contemporaneamente. Per spiegarsi meglio: certe sequenze passano dalla finzione alla realtà senza alcuna soluzione di continuità, richiamando alla differenza fra i due livelli solo con un gesto di macchina da presa, il che la dice lunga su ciò che Tarantino intende per artigianato del cinema. Once Upon a Time in Hollywood, senza entrare in troppi dettagli narrativi - per richiesta specifica del regista alla platea foltissima di giornalisti all’anteprima a Cannes 72 - può definirsi probabilmente un film mortuario, un film in cui il concetto di intrattenimento arriva ad un punto zero, con dilatazioni temporali inedite per il regista, continue parentesi non sempre autoconcluse e coerenti, e una trama praticamente inesistente. Eppure il film non è nemmeno un trip da flaneur pynchoniano fra festini, star system, droga e hippies, è un’altra cosa ancora. È un film di continua rimessa in discussione di ciò che si vede. Il confine con il cinema sperimentale si fa più labile, se pensiamo che il film fluttua in una sospensione del tempo e dello spazio che raramente al cinema si incontra: le narrazioni e le situazioni si aprono talvolta senza chiudersi, le icone dei Seventies si susseguono entusiaste con bruciante energia ma spesso decontestualizzate, e le modalità di messa in scena si mischiano, anche senza senso alcuno. Tutto quello di cui si parla in Once Upon A Time in Hollywood fa parte di un pot pourri debordante e slabbrato terribilmente destabilizzante perché disciolto in un ritmo che raramente diremmo tarantiniano, fatta eccezione per l’esplosivo finale. 

La chiave di lettura del film è data da una sequenza apparentemente insignificante: un pianosequenza di svariati minuti di un televisore in cui si vede un action interpretato da DiCaprio, attore anche nella finzione. La scena che seguiamo dovrebbe entusiasmarci, coinvolgerci, esattamente alla maniera tarantiniana. Ma arriva in un contesto diverso, quello della finzione scenica al di qua - o per meglio dire, tutt’attorno - della televisione, poiché il pianosequenza è la soggettiva di DiCaprio e Pitt che guardano la televisione. Si avvertono improvvisamente un’alienazione e uno straniamento rispetto all’azione, rappresentata ma non vivibile, lontana e irraggiungibile; si avverte un discorso metacinematografico che non ha più niente a che fare con la razionalità, ma piuttosto con la maniera in cui quello che vediamo possa essere realtà o meno secondo il modo in cui percepiamo i contorni dell’immagine, i contorni della scena. 

È difficile spiegare quello che Once Upon A Time in Hollywood dimostra con il candore del montaggio e la semplicità del capolavoro. Si può dire che le regole dell’intrattenimento sono state riscritte, o sono quantomeno da rivedere. Ed è tanto per un Cinema che sembra sempre più privo di speranze di cambiare davvero.

Bello da star male.

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