Regia di Stefano Savona vedi scheda film
SICILIA QUEER FILMFEST 2018 - FILM DI APERTURA
Mostrare ancor prima di raccontare, inevitabile diatriba di approcci che il genere documentario affronta con tragica attenzione e dovizia specie quando gli argomenti rischiano di essere scabrosi e intoccabili come quello delle stragi sulla striscia di Gaza. Stefano Savona declina la sua operazione filmica nei termini di un Cinema che potremmo definire gender-fluid, poiché destruttura i formati pur rispettandoli nella loro fondamentale grammatica e li rifonde in una nuova chiave di lettura, critica ed estetica, in cui mostrare può voler dire raccontare soltanto se, à la Frederick Wiseman, ricuciamo i pezzi assieme in maniera opportuna, nella tensione gravosa fra reportage e dramma. La drammaturgia è di fatto ne La strada dei Samouni una drammaturgia intima che si costruisce naturalmente e gradualmente con il montaggio, primo grosso ostacolo nell'opera documentaristica laddove la riproduzione del reale possa sembrare, il più delle volte, manomessa dall'interno, e questa stessa manomissione mascherabile nel ritmo azzeccato e nella costruzione accademica - dunque nella cattura galvanizzante dell'attenzione dello spettatore. Se La strada dei Samouni ha in effetti un approccio accademico, è perché quell'accademismo deve essere conosciuto per essere demolito, ed è per questo, seppur in ritardo rispetto a Wang Bing, che Savona riesce a trasformare il reportage in un documento di teoria cinematografica tout court, in cui il gesto filmico è poco meno rispetto al gesto fondamentale, culturale, ma non primordiale, della scrittura e della ridisposizione grammaticale dei segni. E' infatti bene vedere il documentario di Savona come una foresta di segni da ricucire assieme, segni che convergono - disastrosamente e fatalmente - nella ricostruzione dei tragici eventi al centro dell'indagine a metà film, il bombardamento di quella stessa strada che dà il titolo alla pellicola. Non è un caso che le scritture, i disegni, le forme e i "confini" (fra le case, fra i formati, nel filmico e nel profilmico) siano l'argomento centrale nel film, e siano ridotte sempre più sul lastrico (il disegno infantile di Gerusalemme ritrovato fra le macerie, gli scarabocchi anti-arabi dell'esercito israeliano sulle pareti della casa distrutta, gli ultimi disegni tracciati come un mandala sulla sabbia). E non è un caso che a rendere tragicamente fluidi questi confini sia l'animazione di Simone Massi, che da sempre perlustra e penetra tutto ciò che è osservabile e percepibile per entrare nell'immaginario intimo dell'essere umano e nel frattempo per estrarlo e trasformarlo in una forma collettivamente percepibile, dopo il suo fisico scioglimento - il segno filmico.
Di segni vividi e visivi vive il documentario, e la sua messa in crisi, come in The Ditch di Wang Bing, richiede allo spettatore lo sforzo di non porre confini di genere, per capire che reale e immaginario convivono nei termini della ricostruzione critica, e che dunque astrarre il reale è un'operazione ancor più gravosamente responsabilizzante rispetto alla nuda e cruda mise en scène, che invece è sempre al confine con l'acritico. Mai realmente nudi e crudi sono i più emblematici e "naturalisti" fra i documentaristi (di nuovo, Wang Bing, Frederick Wiseman, ma viene in mente anche Blaise Othnin-Girard con Michel o addirittura Barbara Kopple in Harlan County, U.S.A.), perché anche quando il linguaggio sembra prosciugato, è in realtà perché lo si è astratto a concetto - il gesto filmico e la presenza filmica del regista in Ku Qian di Wang Bing sono esemplari in tal senso -, la qual cosa non esclude il fattore esperienza, in La strada dei Samouni genuinamente tragica, se non addirittura commovente per i suoi connotati teorici talmente scrupolosi. Infatti è solo commozione quella che si percepisce nelle riprese aeree in camera termica (altri segni, in sovrimpressione, i minuti le ore e i giorni trascorsi in assurda soluzione di continuità) quando Amal, ferita alla testa, viene tirata fuori dall'abitazione semi-distrutta, o quando il popolo palestinese si riunisce e festeggia nel finale nell'unica scena notturna del film, a dimostrazione della loro sopravvivenza pur nell'assenza dei bordi e dei confini, distrutti dalla guerra e poi fattivamente, nel buio, assorbiti dal nero della notte.
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