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La strada dei Samouni

Regia di Stefano Savona vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La strada dei Samouni

di yume
8 stelle

Il disegno a graffi di Massi scompare, occupa 42 minuti del totale e sta nel cuore della pellicola, animazione agghiacciante sia quando la scena trabocca di un bianco e nero inchiostro che rifiuta ogni colore, sia quando la finzione dello schermo di un drone ci cala dentro un’immagine virtuale , un video game in cui si spara su uomini veri.

locandina

La strada dei Samouni (2018): locandina

Manoel De Oliveira lo chiamò “No – La folle gloria del comando”, e pur nella distanza e diversità di registro stilistico, storia e riferimenti, c’è una cifra comune fra quel film-epopea della storia portoghese e La strada dei Samouni di Stefano Savona, un documentario dalla stessa forza emotiva che assale lo sguardo e si trasmette a tutti i gangli vitali del corpo.

La strada dei Samouni è un ibrido fra presa diretta di taglio cronachistico e ricostruzione ambientale e storica, dove le scene mancanti del folle raid israeliano chiamato “Piombo fuso”, che in due giorni nel 2009 ridusse in macerie la strada del titolo e la vita di 29 Samouni, sono sostituite dall’animazione di Simone Massi.

Scorrono due ore fra immagini a cui siamo tristemente abituati, quartieri di ordinaria miseria alla periferia di Gaza, abitazioni povere, uomini che un tempo lavoravano a Tel Aviv e ora hanno perso il lavoro perché c’è un muro, ci sono posti di blocco, ci sono odi inestricabili.

C’è il NON.

 

Parola terribile è la parola “NON”, una parola che non ha né un dritto né un rovescio da qualsiasi parte cominci a leggerla, suona uguale e dice la stessa cosa. 

Se la leggi dal principio verso la fine o dalla fine verso il principio è sempre “NON”. 

Quando il bastone di Mosè all’improvviso si trasformò in un serpente così feroce da indurre Mosè a fuggire per non essere morso, subito il serpente perse la sua forma, la sua ferocia, il suo veleno. Il “NON” invece non è così, da qualsiasi parte lo vuoi prendere resta sempre un serpente che morde sempre, che ferisce sempre, perché porta sempre il veleno in sé.

Ammazza anche la speranza che è l’ultimo rimedio lasciato dalla natura per tutti i mali. 

Non esiste correzione che possa cambiare il “NON”, né arte che riesca ad ammansirlo, né alcuna lusinga che possa renderlo più dolce.

Possiamo impegnare tutte le nostre energie per abbellirlo, ma alla fine ci amareggia sempre, puoi anche provare a dipingerlo d’oro, ma rimarrà sempre di ferro

 

Al centro delle strade del borgo c’era un sicomoro, un grande albero di 150 anni.

La piccola Amal dallo sguardo triste segna il luogo per terra, lì andava coi fratelli ad arrampicarsi, al padre portava il caffè nelle pause del lavoro nei campi.

Allora quei campi erano fertili di olivi e lattuga, ora di olivi ce sono due, sopravvissuti chissà come e la lattuga pian piano ricomincia a spuntare.

E due ragazzi dovevano sposarsi, era tutto pronto, e poi arrivò l’inferno dal cielo.

scena

La strada dei Samouni (2018): scena

 

Savona alterna riprese dal vivo, dentro le case che i fondi dell’ONU per la ricostruzione sono bastati a malapena a rimettere in piedi (e le “casette dei terremotati” al confronto sembrano regge), e fuori per le strade dove i bambini giocano fra le macerie, le donne svolazzano nel loro veli, gli uomini fumano silenziosi.

A tratti dalla moschea sistemata sotto una tensiostruttura approssimativa arriva la voce dell’imam.

 

Amal è una ragazzina triste, a volte fa un sorriso timido, che scopre grandi denti storti mentre dà il martirio alla fascia fra i capelli, togliendola e rimettendola di continuo.

Le sono morti quasi tutti della famiglia. Lei restò tre giorni fra i cadaveri, a faccia in giù sul pavimento che quasi la lasciavano lì quelli della Croce Rossa che raccolsero i feriti.

Dopo, per tanto tempo, si muoveva solo per mangiare qualcosa, poi riprendeva a dormire, racconta chi l’aiutò.

E fu fortunata, altri bambini morirono.

 

Lungo le riprese che non trascurano nulla perchè Savona ha ripercorso ogni tappa facendo parlare chi c’era, scorre un brivido gelido, sembra che sia passata l’ala di un angelo sterminatore lasciando il suo segno.

scena

La strada dei Samouni (2018): scena

 

Le ali di morte cominciarono, in quella fine del 2008, a svolazzare nel cielo di un quartiere tranquillo.

Grandi uccelli neri si trasformarono in aerei dal rombo spaventoso.

I Samouni erano una grande famiglia, un padre e due mogli, ognuna con sette figli.

Ma la prima era andata via, era una madre svogliata e il padre si risposò.

Fervono i preparativi del matrimonio, hanno avuto dei morti e ai funerali si sono presentati i soliti “accaparratori di condoglianze”.

E’ una cosa che pochi sanno e Savona ce la racconta sapendo di stupire.

Hamas, Jiad islamica, Isis, tutte le sigle arrivano in corsa per fare proseliti e guadagnare terreno quando ci sono dolore da trasformare in rabbia e gramaglie in attentati suicidi.

E’ bastato questo, l’odio e la paura fanno sempre il resto.

Il padre dei Samouni è creduto un terrorista, bisogna rimuovere il pericolo alla radice.

E arrivano aerei, bombe, droni con le immagini in negativo, e le figurine in fuga sembrano fantasmi bianchi, sentiamo le voci che dettano ordini di attacco, uomini, donne, bambini cadono a terra, soffocano dal fumo dentro casa, corrono per strada.

 

Un soldato si rifiuta di colpire, ascoltiamo la voce ribelle dal drone: “Colpite”, “No comandante, sono dei civili” “Colpite” “NO”.

 

E poi arrivano gli elefanti al galoppo, è l'armata di Abraha, un'immagine del Corano, mostri da fantascienza che Stefano Massi disegna con quel suo tratto inconfondibile, fluido e magnetico, e nulla resta sulla loro strada, fino al sicomoro, che una lunga proboscide sradica quasi con piacere sadico.

Le radici restano fluttuanti in aria, potremmo dire col poeta “oscillavano lievi al triste vento”.

 

Una striscia di cronaca recente, tristi nomi, tristi sigle, l’arabo è una lingua ormai conosciuta.

Israele colpisce e come tutte le guerre e i popoli che hanno paura colpisce anche dove non deve.

A Gaza si muore preparando matrimoni.

Amal pensa al suo sicomoro che non c’è più.

 

Bandiere nere su Gaza. Un incubo per Israele. Una minaccia per Hamas. Un recente rapporto di Shin Bet (il servizio di sicurezza interno israeliano) trova conferma in ambienti palestinesi vicini al presidente dell’Anp Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e al numero uno di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh. All’Huffington Post, le fonti palestinesi danno conto di una crescente penetrazione salafita non solo nella Striscia ma anche in Cisgiordania, delineando un processo di smottamento di interi comparti di Ezzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas, e della Jihad islamica palestinese verso il “nuovo Saladino” dell’era post-Bin Laden: Abu Bakr al-Baghdadi, il capo riconosciuto dell’autoproclamato Stato Islamico di Iraq e del Levante.”

 

Stefano Savona

La strada dei Samouni (2018): Stefano Savona

 

Ma bisogna che qualcuno parli dei morti quando non sono morti.

Avevo conosciuto a Gaza la famiglia palestinese Samouni che veniva fuori da una storia tragica. Sono rimasto accanto un mese per ricostruire quanto accaduto, per realizzare un reportage. Ma era altro quel che volevo raccontare: chi erano nella vita normale coloro che non c’erano più dopo quel raid israeliano e l’esistenza dei sopravvissuti dopo la tragedia. Così ho stabilito un rapporto più lungo e articolato con quella famiglia e ho pensato che il film avesse bisogno di altro per raccontare il passato.”

 

E chi sono dopo i superstiti? Gente che vive, soffre, gioisce.

 

Il disegno a graffi di Massi scompare, occupa 42 minuti del totale e sta nel cuore della pellicola, animazione agghiacciante sia quando la scena trabocca di un bianco e nero inchiostro che rifiuta ogni colore, sia quando la finzione dello schermo di un drone ci cala dentro un’immagine virtuale , un video game in cui si spara su uomini veri.

Ma quel matrimonio si farà.

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